Corridoi umanitari: storia di Ula, che non vuole tornare in Siria
Ula non diventerà una statua di sale come è accaduto alla moglie di Lot che, nel racconto biblico, si volta indietro per vedere da lontano la distruzione della città di Sodoma. “Voglio guardare avanti, al futuro, mio e dei miei figli. Il resto è alle spalle”. La sua Sodoma è Damasco, la sua terra promessa l’Italia. Ha poco più di 30 anni, tre figli maschi di 15, 14 e 6 anni, un marito, una suocera: è tutto ciò che è rimasto della sua famiglia.
“La guerra – racconta con un sorriso stampato in faccia che non si adombra neppure nel ricordare i momenti più brutti – mi ha portato via tutto. I miei genitori, mia sorella, parenti, amici, casa. Non ho più niente. Siamo stati costretti a scappare, in fretta. Stavamo bene prima della guerra. Ma non dobbiamo pensarci, siamo forti, dobbiamo guardare avanti”. Alla domanda se tornerebbe in una Siria pacificata, non ha ripensamenti: “No, non avrebbe senso. Il mio sogno adesso è diventare una famiglia italiana”.
Il percorso del corridoio umanitario di Ula e famiglia
È un sogno da costruire, tassello dopo tassello, ma non impossibile. La famiglia di Ula è arrivata in Italia in sicurezza, non su un barcone ma in aereo, con uno dei corridoi umanitari, iniziativa ecumenica cattolico-protestante che con due protocolli firmati con i Ministeri dell’Interno e degli Esteri ha portato sulla nostra penisola oltre 1600 persone, per lo più da Aleppo, Homs, Idlib e Damasco.
Un anno e mezzo fa la prima tappa per Ula e famiglia è stata Luserna San Giovanni, in Val Pellice, uno dei posti dove la Diaconia Valdese ha a disposizione alcuni alloggi per i rifugiati. “Siamo stati benissimo a Luserna – dice Ula trasferita da due giorni a Torino –, ma ora ho assolutamente bisogno di un lavoro. Lo so, tutti ne hanno bisogno, ma noi entro cinque anni dobbiamo avere una sistemazione definitiva per poter restare”.
Ula ha fretta di camminare con le sue gambe e la suocera (“è sarta – dice di lei la nuora – e sa far bene da mangiare”) approva. A nulla valgono le rassicurazioni della mediatrice Tourya che segue costantemente, passo dopo passo, l’integrazione di coloro che si servono dei corridoi umanitari e che non ha alcun dubbio sul buon esisto del percorso: “Nella peggiore delle ipotesi, ma finora non è accaduto, dopo cinque anni il permesso è rinnovato automaticamente per questi rifugiati. Nessuno di loro è lasciato solo – assicura –, nessuno è lasciato indietro. Con i corridoi queste persone arrivano in modo legale con un visto rilasciato dall’ambasciata in Libano. Hanno subito una casa, semplice, con l’essenziale. Sono forniti di assistenza legale, sociale. Vengono attivati per loro tirocini di lavoro. I bambini sono subito inseriti a scuola o nei centri estivi, se è periodo di vacanza. La nostra esperienza dice che nell’arco di un anno e mezzo, due anni, sono sistemati”.
Ambizioni di emancipazione
In effetti il marito di Ula è già a un passo dall’ottenere un contratto definitivo come scenografo, la professione che svolgeva in un’emittente televisiva di Damasco, prima che scoppiasse l’inferno. “Io ero a casa, casalinga”, ricorda Ula, che adesso, però, intende voltare pagina completamente. “Devo andare a scuola per imparare bene l’italiano e anche per ottenere la licenza di terza media. L’avevo già nel mio Paese, ma qui non vale– continua Ula–. Poi voglio prendere la patente di guida, comprare un’auto e così potermi muovere per lavorare. Qualsiasi lavoro purché onesto: posso fare la badante, le pulizie di casa, la parrucchiera. La famiglia è grande. Quando eravamo in Siria, prima della guerra, non avevamo problemi economici, stavamo bene, tutto era facile e non c’era necessità che andassi anch’io a lavorare”.
Ma nelle parole di Ula si percepisce chiaramente un’ ambizione che va oltre lo stato di necessità. “Per molte di queste donne – spiega Elisabetta Libanore , operatrice della Diaconia Valdese – emigrare dal proprio Paese significa anche emanciparsi, avere voglia di un rinnovamento che coinvolge direttamente la loro persona, il loro modo di vivere”. “Questo è un bene – aggiunge la mediatrice – I nostri progetti d’assistenza sono a scalare a mano a mano che queste persone acquistano indipendenza. L’idea è che diventino protagoniste dei loro destini, che siano responsabili. E’ un problema di educazione: devono diventare autonomi. Noi siamo e resteremo un loro punto di riferimento, ma loro sono, ognuno di loro è una persona che vogliamo e dobbiamo trattare come un nostro pari. È gente che nel loro Paese aveva uno status culturale, economico”.
Un dato, quest’ultimo, spesso dimenticato dalle cronache. Le immagini dei barconi, tristemente reali e drammatiche, se da un lato richiamano alle responsabilità dell’Italia e dell’Europa e l’urgenza di intervenire, dall’altro fanno perdere l’identità delle persone che vi stanno a bordo, come se fossero tutti uguali, tutti anonimi, tutti con storie fotocopia, senza alcuna peculiarità e che quindi non vale la pena di raccontare. L’informazione dell’emergenza li vede soltanto ‘bisognosi’ (e pure lo sono) e non anche, e soprattutto, individui con aspirazione di riscatto da una condizione di subalternità, di umiliazione.
Finora il modello dei corridoi umanitari ha funzionato, ma con numeri ancora piccoli, non su vasta scala e non pianificato a livello europeo. Sulle pagine di Avvenire, il premier Giuseppe Conte e la vice-ministra degli Esteri Emanuela Del Re hanno manifestato interesse e ampia disponibilità a implementare i corridoi che, tra il 2020 e il 2021 – Commissione europea permettendo – potrebbero portare in modo regolare nel continente 50mila persone. Intanto a maggio in Viminale è stato rinnovato l’accordo con Cei e Comunità di Sant’Egidio per l’arrivo in Italia nei prossimi due anni di 600 richiedenti asilo. Si trovano, al momento, in campi profughi di Etiopia, Niger, Giordania, ma provengono per lo più dal Corno d’Africa e dalla fascia sub sahariana. Si aggiungono ad altri 498 che sono già stati accolti in un centinaio di comuni.