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Considerazioni ispirate dal 'caso Gozi'

Privazione della cittadinanza italiana e cittadinanza dell’Ue

9 Ago 2019 - Natalino Ronzitti - Natalino Ronzitti

Ora che il caso Gozi si è momentaneamente sopito conviene riflettere sulla problematica della perdita e revoca della cittadinanza italiana non solo alla luce del nostro ordinamento, ma anche in relazione alle norme di diritto internazionale  e alle regole dell’Unione europea(Ue). Riassumiamo i termini del problema.

Sandro Gozi, cittadino italiano, si è candidato alle elezioni per il Parlamento europeo (Pe) nelle liste francesi e precisamente nella formazione ‘République En Marche’, che fa capo al presidente Emmanuel Macron. Comportamento perfettamente legittimo poiché le liste per le elezioni europee, formate su basi nazionali, sono aperte anche a cittadini appartenenti ad altri Stati dell’Unione. Gozi non è stato immediatamente eletto, ma è nella lista dei cinque nominativi che dovrebbero accedere al Pe, una volta attuata la Brexit con la conseguente messa a disposizione della Francia di cinque seggi supplementari.

Nell’attesa, Gozi è diventato ‘chargé de mission”’per  l’attuazione del futuro assetto della Commissione europea presso il primo ministro francese Edouard Philippe. A quanto pare, non si tratta dell’assunzione di una carica governativa, quale quella di ministro o sottosegretario, ma solo di una funzione di consigliere, che peraltro è resa politicamente rilevante dall’attuale momento, in cui si discute della configurazione della futura Commissione, e dal fatto che il consigliere risponde direttamente al primo ministro.

In Italia si sono subito sollevate proteste, a livello dei vertici governativi e da parte di esponenti politici della destra, che hanno accusato Gozi di venir meno ai doveri di fedeltà nei confronti della Patria, chiedendone la privazione della cittadinanza. La vicenda ha avuto una discreta eco anche nella stampa francese, ma non mi sembra che ci siano state prese di posizione a livello governativo.

Cosa dispone la legge italiana
La perdita della cittadinanza è disciplinata per legge. Le fattispecie, per quello che qui interessa, sono regolate dall’art. 12 della legge sulla cittadinanza (L. 5 febbraio 1992, n. 91).  A parte il caso in cui l’Italia sia in guerra con un altro Stato, l’art. 12, comma 1 stabilisce che:

“Il cittadino italiano perde la cittadinanza se, avendo accettato un impiego pubblico od una carica pubblica da uno Stato o ente pubblico estero o da un ente internazionale cui non partecipi l’Italia, ovvero prestando servizio militare per uno Stato estero, non ottempera, nel termine fissato, all’intimazione che il Governo italiano può  rivolgergli di abbandonare l’impiego, la carica o il servizio militare”.

Quindi la perdita della cittadinanza non è automatica, ma presuppone un’intimazione da parte del governo di abbandonare l’incarico e solo in caso di non ottemperanza il governo può privarlo della cittadinanza. Si tratta pertanto di un atto  per certi aspetti discrezionale, di natura sanzionatoria, ulteriormente disciplinato da un DPR (572/1993, art.9), che stabilisce come l’intimazione sia oggetto di un decreto del ministro dell’Interno. Il primo Decreto Legge Sicurezza ha aggiunto una fattispecie di revoca della cittadinanza nei confronti di chi, naturalizzato italiano, abbia commesso atti di terrorismo o altri reati particolarmente odiosi (L. 1.12. 2018, art. 14).

La cittadinanza non può essere revocata per motivi politici. Il divieto è stabilito dall’art. 22 della Costituzione. Quello di prestare servizio militare è chiaro. Ma cosa s’intende per impiego pubblico o carica pubblica? I due termini, specialmente il primo, si prestano a divergenti interpretazioni e, se intesi con una certa ampiezza, possono avere conseguenze aberranti, che provocano un danno irreparabile per l’interessato. Occorre allora riflettere se un rimedio possa essere trovato nel diritto internazionale e/o nel diritto UE.

Il diritto internazionale
Gli Stati ammettono difficilmente limitazioni alle loro prerogative di disciplinare la cittadinanza e in particolare la sua revoca. Disposizioni elementari possiamo trovarle nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, secondo cui nessuno può essere privato “arbitrariamente” della cittadinanza. Ormai la disposizione ha natura giuridica vincolante e il segretario generale delle Nazioni Unite ha pubblicato un elaborato Rapporto in materia (2013), che esemplifica i casi di privazione arbitraria.

La privazione della cittadinanza può avere come conseguenza l’apolidia, qualora l’individuo non sia fornito di altra cittadinanza. Al fine di contenerne gli effetti negativi, sono state stipulate convenzioni a livello universale e a livello regionale. Quanto alle prime, è da ricordare la Convenzione delle Nazioni Unite sull’apolidia del 1961. Essa consente però a uno Stato contraente di formulare una riserva per il mantenimento in vigore della legislazione nazionale in materia di privazione della cittadinanza per la violazione dei doveri di lealtà verso lo Stato o altre trasgressioni specificamente elencate. Di tale riserva si è avvalsa l’Italia quando ha aderito  alla Convenzione nel 2015.

Quanto alle seconde, viene in rilievo la Convenzione europea sulla nazionalità del 1997. Anch’essa detta disposizioni per limitare i casi di privazione della cittadinanza. Ma la Convenzione non è in vigore per il nostro Paese, che l’ha solo firmata, ma non ratificata (l’Italia ha invece ratificato la Convenzione europea del 1963 sull’eliminazione dei casi di doppia nazionalità).

Alla luce di quanto sopra, credo che le disposizioni nazionali sulla privazione della cittadinanza dovrebbero essere interpretate tenendo conto del divieto di una sua privazione arbitraria. In particolare, si dovrebbe tener conto dell’incidenza dei principi di diritto internazionale sulla legislazione interna, specialmente quando la privazione della cittadinanza dipende da un procedimento che viene messo in moto dall’esecutivo, come avviene per la legge italiana.

L’Unione europea
I cittadini degli Stati membri dell’Ue godono anche della cittadinanza europea. Essa si aggiunge a quella nazionale e non la sostituisce. Tra i diritti attribuiti, rileva il diritto di elettorato attivo e passivo alle elezioni del Pe e a quelle comunali dello Stato membro di residenza. Il legislatore europeo non ha inteso sostituirsi al legislatore nazionale e non ha quindi regolato la cittadinanza negli Stati membri.

Ma la cittadinanza europea produce inevitabili conseguenze sulle legislazioni nazionali. Lo ha ribadito la Corte di Giustizia dell’Ue in una sentenza di quest’anno, che conferma una giurisprudenza precedente. Secondo la Corte, è legittimo per uno Stato membro garantire il rispetto del principio di solidarietà e di lealtà tra se stesso e i propri cittadini. Ma poiché la privazione della cittadinanza nazionale determina la perdita di quella europea, occorre valutarne le conseguenze in base al principio di solidarietà e agli effetti negativi che essa produrrebbe sui diritti garantiti dall’ordinamento dell’Ue, che l’individuo non potrebbe più esercitare.

Sarebbe pertanto assurdo che un individuo, privato della cittadinanza del proprio Paese, ma in procinto di diventare membro del Pe in quanto eletto in un altro Paese dell’Ue, non potesse più diventare parlamentare europeo poiché privato della propria cittadinanza nazionale e, automaticamente, di quella europea.

Potenziali rimedi
Non esiste un unico rimedio, ma si può procedere per gradi allo scopo di evitare conseguenze non conformi al diritto. In primo luogo, occorre evitare che la privazione della cittadinanza si configuri come una privazione arbitraria della stessa, per non incorrere nella violazione della norma internazionale che interdice una tale condotta. L’art. 12 della legge sulla cittadinanza conferisce al governo sufficiente discrezionalità per apprezzare se, nel caso concreto, sussistano elementi di adeguata gravità per la privazione della cittadinanza italiana.  In secondo luogo, occorre tener presente che la privazione della cittadinanza italiana comporta automaticamente anche la decadenza da quella europea, tranne che l’individuo sia dotato di altra cittadinanza di stato membro Ue.

Quindi la privazione della cittadinanza comporterebbe un vulnus particolarmente grave poiché impedirebbe il godimento e l’esercizio di diritti che derivano dall’ordinamento dell’Ue. Il che produce un restringimento dei poteri dello Stato nazionale in materia di privazione della cittadinanza, come espressamente statuito dalla Corte di Giustizia dell’Ue.

Ma a nostro avviso occorre esaminare la questione sotto un profilo più ampio  e differenziare tra impieghi e cariche pubbliche presso Stati Ue, da una parte, e presso Stati terzi, dall’altra. Il processo di integrazione europea fa si che uno Stato membro non possa essere considerato a pieno titolo uno Stato ‘estero’, ma uno Stato con cui noi condividiamo valori essenziali. La visione è che tali valori  siano  destinati a confluire nell’ambito di  uno Stato federale (o confederale), composto dagli attuali Stati Ue.

Stando così le cose, il dovere di lealtà del cittadino europeo dovrebbe essere professato nei confronti dello Stato federale/confederale e non si vede come il singolo possa trasgredire tale dovere se assuma un impiego o una carica pubblica indifferentemente presso uno qualsiasi degli Stati membri. Spingendo all’estremo l’analogia, si potrebbe affermare che, così come attualmente avviene negli Stati federali, dove l’individuo può prestare la propria opera presso il governo locale di qualsiasi Stato membro, altrettanto dovrebbe avvenire nel campo dell’Ue. Ma se così è, il prossimo passo da fare è prevedere una modifica dell’art. 12 della legge sulla cittadinanza, differenziando chiaramente tra Stati esteri, in senso stretto, e Stati membri dell’Ue.