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Formarsi e tornare a casa

Migrazione circolare: le serre di Seny, un sopravvissuto

28 Ago 2019 - Emmanuela Banfo - Emmanuela Banfo

Viene chiamata “migrazione circolare” e si propone di aiutare i migranti, che vogliono rientrare nel loro Paese, a riuscire  a farlo dopo aver imparato un mestiere da portarsi dietro e, magari, da insegnare ai connazionali. Seny Diallo, senegalese di 27 anni, lo sta sperimentando sulla sua pelle: abita a Tambacounda e coordina uno dei progetti che consiste nella gestione di serre per la coltivazione di verdure. Al momento sono tre, uno in Gambia e due in Senegal, ma il suo obiettivo è di estenderli coinvolgendo ben più delle sette persone che lavorano con lui.

Raccontata così la sua storia, per quanto significativa di una gioventù che vuole cambiare in meglio il proprio destino, non ha nulla di speciale. Speciale è, invece, che Seny è uno dei sopravvissuti ai barconi della morte del Mediterraneo. “Sono partito da solo – racconta in un italiano quasi perfetto –. Non sapevo dei rischi, volevo soltanto cercare un lavoro per poter aiutare la mia famiglia”. Single, ma “quasi fidanzato” – aggiunge –, vive con i genitori, quattro fratelli, che studiano, e due sorelle, sposate.

Il viaggio, i rischi, l’inizio del futuro
La sua intenzione non era affatto di arrivare in Europa. Aveva un amico Libia e intendeva raggiungerlo per vedere se lì c’erano delle prospettive. Ma dopo aver attraversato il deserto della Mauritania, dove è stato a un passo dalla morte, si aprono le porte dell’inferno. “Sono arrivato dal mio amico, ma il giorno dopo banditi libici lo hanno ucciso”, ricorda Seny  che solo e disperato si rivolge ai trafficanti. “A quel punto volevo tornare a casa, in Senegal, ma loro mi hanno detto che non era possibile e che potevo solo salire su un barcone e andare in Europa. Ho dovuto anche dare loro tutto il denaro che avevo, 400 dinari libici”.

Con lui una settantina i migranti salvati, nell’ottobre del 2013, da una motovedetta italiana. Prima tappa Lampedusa, subito dopo Aidone, nella provincia di Enna, nel centro di accoglienza Don Bosco: “Il mio futuro – afferma Seny – è iniziato in quel momento”. Va a scuola, prende la licenza media e impara così bene e così in fretta la lingua italiana che diventa mediatore culturale nei centri salesiani per i rifugiati, nell’oratorio e social housing di Piazza Armerina.

Per i senegalesi e contro i pregiudizi
“Mi hanno insegnato un mestiere e sono stato inserito in un progetto che ora porto avanti nel mio Paese. Io non ho mai voluto abbandonare il Senegal. Il mio obiettivo è sempre stato quello di tornare. Qui il problema è la povertà, la mancanza di lavoro, ma anche – ci tiene a sottolineare – la mancanza di libertà. Se un ragazzo cristiano e una ragazza musulmana si vogliono bene e vogliono sposarsi, non possono”.

Un pregiudizio religioso che Seny, di confessione musulmana, non condivide. “Ora il mio sogno è convincere i miei connazionali a non ripetere i miei errori, a non fare la mia stessa strada. Partire nelle condizioni in cui sono partito io, è rischioso. Sono già riuscito a convincere molti giovani. Il progetto che coordino ha in dotazione dei pozzi per il rifornimento dell’acqua e l’uso dei pannelli solari. Le nostre coltivazioni agricole sono tutte biologiche. La nostra speranza è che l’ Europa ci aiuti, finanzi questi programmi di sviluppo”.

Formazione e accompagnamento a distanza
“Partono perché stanno davvero male – dice Agostino Sella, presidente dell’Associazione Don Bosco 2000  che ha conosciuto Seny quando era studente in Sicilia – Ma troppo spesso il loro esodo si trasforma in un viaggio della morte. L’Africa l’abbiamo depredata e ora dobbiamo investire sugli africani, lavorare per lo sviluppo, in particolare nella zona sub-sahariana. A coloro che sbarcano diamo accoglienza e offriamo a tutti possibilità di formazione frequentando la scuola e tirocini di lavoro”.

Ma per riprendere la strada di casa tutto questo non è sufficiente. Ci vuole un accompagnamento a distanza che richiede risorse. La start up di Seny, che al momento può sembrare una goccia in un mare di povertà, non è un caso isolato. In tre anni il Volontariato internazionale per lo Sviluppo, assieme a Missioni Don Bosco, ha formato in cinque Paesi dell’Africa subsahariana 470 mila giovani. Non si contano, tanto sono numerose, le iniziative di sostegno alla micro imprenditorialità, in particolare agricola, nel continente africano.

Pericoli di fallimento e formule rischiose
Ciò di cui Seny vuol farsi testimone, però, non è solo l’entusiasmo di un lavoro “che migliora la vita di tante famiglie”, rimarca, ma è anche “informare bene sui rischi che si corrono andando via”. “La Chiesa cammina in mezzo ai popoli, nella storia degli uomini e delle donne. Sono parole del Santo Padre che abbiamo fatto nostre – dichiara Giampietro Pettenon, presidente di Missioni Don Bosco – e che ci hanno spinto a camminare al fianco dei popoli dell’Africa sub-sahariana per dire basta alla tratta degli esseri umani e offrire un’alternativa alla migrazione”.

Ciò che occorre monitorare è che al business sulla pelle dei migranti non si aggiunga, o meglio, si perpetui quello sul territorio africano. Alcuni report da qualche anno denunciano come un’imprenditoria privata spregiudicata  si sia introdotta in Africa facendo buoni affari, ma senza migliorare le condizioni di vita delle popolazioni. In questo senso il Compact with Africa del 2017, conosciuto come Piano Merkel, per il rafforzamento degli investimenti privati in Africa, è stato criticato da parte di quanti paventano si tratti della faccia buona del vecchio colonialismo.

Attira sospetti anche la formula “aiutiamoli a casa loro” come ricetta anti-immigrazione. Ma la storia di Seny, che non costituisce affatto un’eccezione, racconta della tratta forzata, della speculazione dei trafficanti di uomini e dice soprattutto che nella povertà, nella solitudine e nella disperazione non c’è libertà. E’ il primo punto scritto sulla bandiera dei missionari salesiani: metterli nella condizione di scegliere.

Questo pezzo va letto a corredo e complemento di quello dello stesso autore pubblicato il 20/08/2019 dal titolo ‘Corridoi umanitari: storia di Ula, che non vuole tornare in Siria’