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Abbattimenti a Gerusalemme Est

Medio Oriente: rialzo tensione tra israeliani e palestinesi

7 Ago 2019 - Nello del Gatto - Nello del Gatto

Continua a salire la tensione in Medio Oriente dopo che Israele ha demolito dodici edifici a Sur Baher, un sobborgo nella zona di Gerusalemme est, che secondo le autorità israeliane erano troppo a ridosso della barriera di separazione con le aree autonome palestinesi. La risposta palestinese non si è fatta attendere: il presidente Mohammad Abbas (Abu Mazen) ha fatto appello alla comunità internazionale e ha parlato di “vero e proprio massacro”. Abu Mazen, ha anche dichiarato di voler sospendere tutti gli accordi con Israele, a partire da quello di sicurezza, che prevede, tra l’altro, la cooperazione anti terrorismo tra le intelligence dei due paesi.

Ma, come spesso accaduto a Ramallah, l’annuncio pare più una non decisione che una mossa attuativa di fatto. Abu Mazen, infatti, ha annunciato l’istituzione di una commissione che dovrà decidere sulla sospensione degli accordi di Oslo e successivi, sottoscritti tra il 1993 e il 1995, per protestare contro la decisione israeliana. Ma non si sa né quando né come la commissione, che dovrebbe essere composta da membri di Fatah e del comitato politico dell’Autorità palestinese come dell’Olp, si riunirà e deciderà. Una mossa, come fanno notare anche molti analisti palestinesi, già vista. Non è la prima volta, infatti, che simili commissioni vengono annunciate o si riuniscono, ma non sono mai stati presi veri e propri provvedimenti.

La questione degli abbattimenti
La questione degli abbattimenti, non è nuova. La barriera di separazione venne costruita da Israele nel 2002 per, a suo dire, impedire ai terroristi palestinesi di raggiungere Israele dalla Cisgiordania. I palestinesi la considerano una mossa illegale perché la barriera in molti punti insiste sui loro territori, come nel caso proprio del sobborgo di Sur Baher, i cui residenti, sostenendo che è impossibile ottenere i permessi di costruzione israeliani a Gerusalemme est, hanno iniziato a costruire i condomini nella parte del villaggio in Cisgiordania con il permesso dell’Autorità palestinese.

Già alcuni anni fa, invero, l’esercito israeliano aveva ordinato la fine della costruzione, dicendo che non era possibile che ci fossero delle abitazioni così vicine alla barriera di separazione. Una diatriba andata avanti a lungo fino a quando questo mese la Corte suprema di Israele ha respinto l’appello finale dei residenti, aprendo la strada alle demolizioni. L’arrivo delle ruspe è stato accompagnato da violente proteste. Alcuni dei condomini si sono inizialmente rifiutati di lasciare le loro case (e sono poi stati cacciati con la forza) affermando che la questione della sicurezza è per Israele in realtà solo una scusa per espandere le zone sotto il proprio controllo. L’esercito israeliano non è nuovo a queste iniziative di abbattimento, ma negli ultimi anni non ce ne era mai stata una così imponente.

Le difficoltà dei palestinesi
Da qui la reazione forte palestinese che, però, ha trovato un’accoglienza fredda, se non di dissenso. Il presidente palestinese, infatti, negli ultimi tempi ha perso molto del suo consenso, avendo fallito, secondo molti osservatori locali e internazionali, su diversi campi. La Palestina, infatti, è sull’orlo della bancarotta, con quasi un miliardo di dollari di deficit. Questo soprattutto a causa della rinuncia, da parte di Abu Mazen, a ricevere da Israele i soldi delle tasse che questo riaccoglie per conto palestinese e che il governo di Netanyahu ha deciso di decurtare della quota che il governo palestinese riserva ai sussidi per i prigionieri politici e alle loro famiglie.

Abu Mazen insiste sulla posizione del “tutto o niente” e, complici anche i minori contributi provenienti dall’estero (in primis americani, anche se gli Emirati hanno annunciato ora aiuti per 50 milioni), il suo Paese è alla fame, ha dovuto decurtare della metà i budget dei ministeri e del 40% lo stipendio dei dipendenti pubblici, che rappresentano la maggioranza degli occupati, oltre a ridurre gli aiuti a Gaza sui quali l’enclave basa quasi l’80% del suo Pil. Anche la sua posizione ferma di opposizione sulla conferenza di Manama voluta dagli Usa lo scorso giugno, durante la quale è stato presentato un piano di aiuti di 50 miliardi, conferenza alla quale hanno partecipato molti Paesi arabi anche amici della Palestina, ha suscitato una forte opposizione interna dove non mancano voci di dissenso e perplessità sull’operato del presidente palestinese.

Molti esponenti politici ritengono che quella di Abu Mazen di interrompere i trattati con Israele sia solo una minaccia vuota. “Anche in passato – ha detto un funzionario palestinese al Jerusalem Post – sono state formate delle commissioni, almeno otto, per porre fine agli accordi con Israele, e non si è poi mai fatto nulla di concreto”. “Questa finta decisione di Abu Mazen- ha commentato l’ex ministro palestinese Hassan Asfour – è la continuazione del comportamento che consiste nel trattare i palestinesi come gente che ha perso la capacità di pensare”. Secondo Mazin Qumsiyeh, professore all’Università di Betlemme e autore, tra gli altri, di ‘Condividere la terra di Canaan: i diritti umani e la lotta israelo-palestinese’ e di ‘Resistenza popolare in Palestina: una storia di speranza ed emancipazione’, “l’annuncio di Abu Mazen non ha credibilità perché i leader sanno bene che cancellare gli accordi con Israele porterebbe in breve al collasso dell’autorità palestinese e non credo che loro vogliano questo”.