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Un convegno alla Camera

Magnitsky Act: protezione internazionale sui diritti umani

23 Ago 2019 - Michele Valente - Michele Valente

La morte dell’avvocato Sergei Magnitsky, il 16 novembre 2009, in circostanze mai chiarite, è presto diventata una cause célèbre, un elemento dell’acuirsi delle tensioni nei rapporti tra Stati Uniti e Russia e un nuovo capitolo nel difficile percorso per la tutela dei diritti umani in molti Paesi del mondo. Il legale russo, 37 anni, all’epoca consulente fiscale dell’imprenditore statunitense William Browder, squarciò il velo che copriva un articolato sistema di corruzione che, dalla polizia al fisco fino alle organizzazioni criminali, lo aveva portato ad indagare nel 2007-2008 sulle ‘relazioni pericolose’ tra poteri pubblici e interessi privati. Si è discusso dell’adozione, in Italia e a livello di Unione europea, della cosiddetta ‘legge Magnitsky’ e dei suoi possibili sviluppi applicativi, in un recente convegno ospitato alla Camera dei Deputati dal titolo Protezione internazionale dei diritti umani e responsabilità individuale: per una legislazione Magnitsky italiana ed europea.

L’iniziativa statunitense (rallentata dall’Amministrazione Trump)
A distanza di un decennio dal suo decesso in carcere – dopo 11 mesi di detenzione con l’accusa di frode fiscale, senza che fosse mai chiamato a processo – è allo studio, in diversi Paesi del mondo, l’adozione di uno strumento legislativo conforme al cosiddetto Magnitsky Act, approvato dal Congresso Usa nel 2012 durante la presidenza Obama. La legge autorizza il governo statunitense a perseguire i responsabili delle violazioni dei diritti umani, sequestrandone i beni e bandendoli dal rilascio dei visti d’ingresso negli Stati Uniti. Nel 2016, il mandato è stato ampliato, con il Global Magnitsky Human Rights Accountability Act, al fine di sanzionare dall’esterno i responsabili di gravi atti di corruzione e di altri abusi, compiuti in qualsiasi Paese.

Due ‘liste nere’ sono state pubblicate nel dicembre 2017, con accuse all’indirizzo di 62 persone, e ne era attesa una terza all’inizio 2018. Tuttavia, l’applicazione dell’Act ha incontrato resistenze in seno all’Amministrazione Trump. Secondo il New York Times, le influenze russe in materia arrivarono già in campagna elettorale, quando Donald Trump jr incontrò, il 9 giugno 2016 alla Trump Tower a Manhattan, l’avvocato Natalia Veselnitskaya. Come confermato dal primogenito del presidente Donald jr, nella conversazione si discusse anche del Magnitsky Act e della pressione esercitata dalla Veselnitskaya contro la legge che aveva bloccato il traffico di minori negli Stati Uniti gestito da alcuni russi.

La ancora debole risposta europea
Il Global Act è stato nel frattempo adottato, oltreché dal Canada, anche da alcuni Stati dell’Unione europea: Estonia, Lettonia, Lituania e l’uscente Regno Unito. In occasione del 70° anniversario della Dichiarazione universale dei Diritti umani, tanto il Consiglio d’Europa quanto la stessa Ue hanno promosso la discussione su una ‘legge Magnitsky europea’.

Un primo risultato è stato raggiunto grazie all’accordo unanime tra i ministri degli Esteri sulla proposta olandese di un regime sanzionatorio comune (EU Global Human Rights Sanctions Regime), mentre una risoluzione votata dal Parlamento europeo il 14 marzo 2019 attende l’approvazione da parte del Consiglio europeo, diviso sul voto all’unanimità o a maggioranza qualificata su una questione di politica estera e di sicurezza comune, materia che ha visto, più volte, alcuni Paesi riluttanti nel votare a favore di sanzioni contro Russia e Cina.

Tutele, sanzioni e possibili sviluppi dell’Act-
Molti i relatori intervenuti lo scorso 24 luglio alla Camera dei deputati nel convegno organizzato dalla Fidu – Federazione Italiana Diritti umani e da Open Dialogue, su iniziativa della deputata Lia Quartapelle, tra cui diversi attivisti che hanno testimoniato d’essere vittime di una sistematica repressione autoritaria nei loro Paesi (Venezuela, Kazakhstan, Azerbaijan e l’area dell’Est Ucraina a maggioranza russofona).

Antonio Stango, presidente della Fidu, ha ricordato, introducendo i lavori, la Dichiarazione di Helsinki del 1975 sul legame imprescindibile tra cooperazione internazionale e diritti umani, sottolineando l’urgenza di adottare nel nostro Paese e in Europa uno strumento di contrasto contro dei “veri e propri sistemi che perseguitano chi condanna gli atti di corruzione con la connivenza di Stati autoritari”, laddove la magistratura non è indipendente e si viola lo stato di diritto.

L’avvocato Bota Jardemalie si è soffermata sugli sviluppi del Magnitsky Act, descrivendone gli aspetti principali e le relative sanzioni, chiarendo possibili dubbi sui “potenziali destinatari” ossia “coloro che vengono reputati responsabili di gravi violazioni dei diritti umani”, secondo “credibili evidenze” sulla base del confronto di diverse fonti e testimonianze, stante la piena discrezionalità nella conduzione delle indagini per ciascuno Stato che deciderà di adottarlo.

“Per gli avvocati avere uno strumento di questo genere è essenziale”, ha sottolineato Francesco Miraglia, membro della Commissione Diritti umani del Consiglio nazionale forense, aggiungendo: “La possibilità per i soggetti di fare valere le proprie ragioni è necessario per riequilibrare determinati abusi”. Gunnar Ekelove-Slydal, vice.segretario del Norwegian Helsinki Commitee (Nhc), si è rivolto ai parlamentari italiani affinché adottino una legge simile che andrebbe ad incidere positivamente sul contrasto alla criminalità di matrice estera, proveniente da regimi autoritari ostili verso i diritti umani.

“È un passaggio di metodo dalle sanzioni verso gli Stati, con possibili ritorsioni verso gli altri Paesi, a un meccanismo contro chi viola i diritti umani, con un effetto di deterrenza nei confronti degli stessi”, ha sottolinea il senatore Roberto Rampi, primo firmatario del disegno di legge presentato a marzo al Senato: “Non crediamo in interventi esterni, ma nella possibilità che i Paesi democratici agiscano insieme nella direzione dei diritti umani”: così spiega il senso dell’iniziativa la deputata Quartapelle. “Credo che serva in Italia uno strumento che ci permetta di esigere i diritti umani, con l’idea che serve costruire una coalizione più ampia”, mettendo in evidenza che “questa legge può essere una dotazione straordinaria per la politica estera”.

Emergenza diritti umani: Kazakhstan e Venezuela
La stessa Jardemalie, cittadina kazaka, è rifugiata politica in Belgio ed è sorella di Iskander Yerimbetov, imprenditore detenuto, arrestato nell’ottobre 2018 e condannato a sette anni di carcere per corruzione nell’ambito di un’operazione ‘politicamente motivata’, secondo le Ong che si sono occupate del caso, che coinvolgerebbe il dissidente Mukhtar Ablyazov, di cui Jardemalie è legale, principale oppositore all’estero dell’attuale governo kazako. “Non c’è possibilità per queste persone di difendersi – ha sostenuto l’avvocato –, dato che il sistema giudiziario non funziona”: “La considerazione di sanzioni personali è fondamentale per tutelare le vittime del regime”.

Fra le varie testimonianze, quella di Lorent Saleh, attivista politico venezuelano, già Premio Sakharov 2017, che ha criticato la posizione italiana sulla crisi politica in Venezuela e l’indecisione europea sul rispetto dei diritti umani: “Quale messaggio i governi democratici del mondo stanno dando alle giovani generazioni? Che se vogliono commettere un crimine, devono stare attenti che quel crimine sia abbastanza crudele da restare impunito”. Il suo intervento, che ricalca molte delle rilevazioni fatte nel recente (e contestato) ‘rapporto Bachelet’ sulle violazioni dei diritti umani perpetrate dal governo Maduro, denuncia le continue ed arbitrarie incarcerazioni di cittadini anche europei. “Dove non c’è rispetto per i diritti umani non c’è giustizia”, continua Saleh, ammonendo che “bisogna agire in linea con quanto stabilito settanta anni fa e fare in modo che chi viola i diritti umani e corrompe sia punito”.