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Cauta la comunità internazionale

Kashmir: l’India si rimangia l’autonomia, il Pakistan reagisce

13 Ago 2019 - Nello del Gatto - Nello del Gatto

E’ trascorsa serenamente in Kashmir la festa religiosa islamica di Eid al-Adha, la festa del sacrificio, dopo che l’India ha deciso di revocare lo statuto speciale allo Stato indiano del nord-ovest a maggioranza musulmana. La polizia ha permesso ai fedeli locali di recarsi in moschea a pregare, anche se rimangono tagliati tutti i collegamenti telefonici e internet e resta in funzione il coprifuoco.

La decisione del governo del premier indiano Narendra Modi di togliere lo statuto speciale allo Stato a maggioranza islamica, formando due nuovi Stati dell’Unione, non deve meravigliare. Non solo era nel programma elettorale dello stesso premier, uscito vincitore dalla lunga tornata elettorale finita a maggio, con una maggioranza schiacciante di 303 seggi solo del suo partito (su 543 totali); ma era anche una bandiera, da sempre, del partito di Modi, il nazionalista Bharatiya Janata Party, che si batte per un’India di indù.

Quello di Modi e del suo esecutivo è solo l’ennesimo tentativo di portare il Paese verso una situazione nella quale i non induisti (fatta eccezion per buddisti e sikh, che sono considerati seguaci di fedi derivate dall’induismo) non siano indiani. Primi fra tutti i musulmani che sono la maggioranza in Kashmir.

La Costituzione e due Stati da uno
Parlando in Parlamento a nome dell’esecutivo, il ministro degli interni indiano Amit Shah ha annunciato pochi giorni fa quello che sarebbe poi successo, cioè che con un decreto presidenziale si sarebbe messo fine all’esistenza dello Stato autonomo indiano del Jammu e Kasmir. Al suo posto, due Stati dell’Unione: il Kasmir e il Ladhak. Il Ladakh, a maggioranza buddista, sarà un territorio dell’Unione senza assemblea; pure il Kashmir sarà un territorio dell’Unione, ma con assemblea. In pratica, il Jammu e Kashmir avrà molta meno autonomia e il governo centrale sarà in grado di controllarne le forze dell’ordine (insieme a molte altre cose, tipo la burocrazia).

L’esistenza dell’autonomia dello Stato frontaliero con il Pakistan era garantita dall’articolo 370 della Costituzione ed è su questo che si battono molti giuristi, indiani e non, che stanno cercando vie legali per contrastare la decisione del governo Modi, dal momento che la politica indiana sul fatto è silente. Con la crisi infatti del Partito del Congresso, che attende ancora di decidere il successore di Rahul Gandhi (l’interim è stato assunto dalla madre Sonia dopo le dimissioni di Rahul a seguito della pesante sconfitta elettorale di maggio), si è solo alzata la voce dell’ex ministro delle finanze Chidambaram che ha aspramente contestato l’esecutivo.

Le vicende del Kashmir tra India e Pakistan
Il problema è molto meno locale di quanto si possa pensare. Entrato nell’ottobre del 1947 nell’Unione indiana per la decisione del suo maharaja di allora, Hari Singh, un induista che guidava uno Stato islamico, al Kashmir venne garantita una certa autonomia proprio per la sua diversità. All’epoca della partizione tra India e Pakistan dopo la fine del controllo britannico sul sub-continente, fu chiesto ai vari maharaja, ai vari Stati locali, a quale Stato volessero afferire.

La creazione di due grandi Stati su base religiosa, India e Pakistan appunto, rese semplice la scelta per molti, ma non per il Kashmir e per Hyderabad (dove c‘era la situazione opposta a quella dello Stato nord-occidentale). In verità, sia il Kashmir che lo Stato di Hyderabad (come del resto il Punjab) puntavano all’indipendenza, ma l’invasione delle truppe indiane rese ovvie le scelte. Anche l’annunciato referendum popolare sulla scelta dello Stato non è mai avvenuto. Tra India e Pakistan è stato così diviso il Kashmir (il Jammu, invece, è a maggioranza induista) e in mezzo è stato messo un ‘confine-non-confine’, la Line of Control in funzione ancora oggi. Sul Ladhak, oltre che il Pakistan, insiste anche la Cina che ha un confine conteso con l’India.

Fino ad oggi, l’autonomia del Kashmir, nonostante sia stata il pretesto per le tre guerre tra i due ‘cugini’ potenze nucleari, aveva più o meno retto, anche se l’India ha sempre accusato il Pakistan di utilizzare il Kashmir per infiltrare terroristi sul suo territorio. Come lo scorso febbraio quando si è andati vicini a un conflitto dopo un attentato contro un convoglio di paramilitari indiani in Kashmir, nel quale morirono 40 persone, attentato al quale l’India rispose bombardando postazioni in Pakistan; e lo Stato islamico sconfinò in territorio indiano abbattendo un jet indiano.

L’impatto della decisione di Modi
Con la decisione del governo, in particolare quella di eludere l’articolo della Costituzioe che garantiva solo ai kashmiri la possibilità di possedere terre e case nello Stato, molti temono che ci possa essere una ‘induizzazione’ dello Stato a maggioranza islamica, come è avvenuto per la ‘cinesizzazione’ del Tibet. E proprio i cinesi non staranno a guardare. Da sempre amici del Pakistan, sono anche preoccupati che l’escalation possa portare non pochi problemi ai tanti loro investimenti nel ‘Paese dei puri’: la Cina, infatti, controlla diverse arterie e porti essenziali per i suoi traffici. Ma teme anche l’espansione indiana nell’area, soprattutto nelle zone contese.

Modi per ora tace, gongola del successo mediatico e del riscontro che sta avendo nel Paese. Il premier pakistano Imran Khan si è appellato alla comunità internazionale e alle Nazioni Unite, dopo aver rotto le relazioni con l’India, cacciato l’ambasciatore di Delhi e richiamato il suo in patria. Molti temono che non riesca, come i suoi predecessori, a controllare i gruppi terroristici, alcuni dei quali operano anche con la complicità dell’esercito, vero e proprio deus ex machina del Paese.

Gli Stati Uniti, che pure avevano ospitato Khan e il capo dell’esercito pachistano, ma che fanno dei rapporti privilegiati tra Trump e Modi un vanto, hanno detto di seguire l’evolversi della situazione, ma precisando che comunque si tratta di affari interni all’India. La Cina per ora tace e l’argomento non è stato trattato nella visita, la prima nel Paese del Dragone, del ministro degli esteri indiano Subrahmanyam Jaishankar, che a Pechino ha incontrato il suo omonimo Wang Yi. I due si sono limitati a dire che “la sensibilità reciproca determinerà le relazioni future”. Un modo per dire ‘staremo a vedere’.