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Destini diversi, percorsi paralleli

Egitto/Tunisia: Fratelli musulmani, gli uni esclusi, gli altri protagonisti

17 Ago 2019 - Viola Siepelunga - Viola Siepelunga

Fratelli Musulmani d’Egitto e di Tunisia. I primi esclusi dal gioco politico, i secondi invece alla ribalta. E’ la cartina tornasole dei diversi destini seguiti dai principali attori dell’Islam politico nord africano. In entrambi i casi sono tornati in auge con le Primavere arabe, ma il sentiero del successo intrapreso insieme si è interrotto in fretta. Optando per il compromesso, i fratelli tunisini di Ennahdha si candidano ora alla presidenza. Rifiutandolo invece, gli Ikhwan egiziani si trovano oggi orfani dell’unico presidente islamista della storia del Paese, morto nella cella del carcere dov’era finito dopo appena un anno di governo.

La crisi della Fratellanza
Nonostante l’invito a scendere in strada lanciato, in solitario, dal presidente turco Racep Tayyip Erdogan – il protettore numero uno degli Ikhwan –, la morte del presidente Morsi non ha scatenato nessuna grossa manifestazione. Segno non solo della brutale repressione che regna in Egitto, dove i Fratelli Musulmani – nemici del regime che li descrive indistintamente come terroristi – sono tornati alla clandestinità, ma anche della difficile fase storica che sta attraversando il movimento.

Non esiste più quella Fratellanza che alla fine degli Anni 70 ha iniziato a condizionare le dinamiche internazionali. E quanto ne resta non può neanche aspirare a governare nuovamente l’Egitto, senza intraprendere un profondo percorso di riflessione ideologica e una riorganizzazione politica. Anche se la maggioranza degli analisti individua nell’estate 2013  – quella del golpe – la data del crollo della Fratellanza, il declino del movimento era iniziato già qualche mese prima, quando la dirigenza – assaporando il successo elettorale – non ha dato ascolto alla fazione interna che chiedeva dinamiche più democratiche. Giovani e numerosi, gli afferenti di questa fazione da tempo relegati nella Shura (l’organo consultivo del movimento) chiedevano di poter avere un ruolo anche nell’esecutivo.

Decimata dalle incarcerazioni, nel 2014 la Fratellanza ha sentito il bisogno di rinnovare i suoi vertici, rimpiazzando quanti (tanti e importanti) erano in carcere. Una delle prime cose fatte da Mohammed Kamal –di fatto nuovo leader in pectore della Confraternita- è stata quella di indire consultazioni interne per eleggere una nuova dirigenza. In questa occasione, quasi il 65% della vecchia guardia è stata sostituita da quei giovani che la storica leadership aveva escluso per anni dal processo decisionale.

Sin da subito però questi aggiustamenti non hanno riscosso consenso unanime tra i Fratelli e le loro diverse componenti ubicate in giro per il mondo. Le frizioni vere e proprie sono iniziate alla fine del 2014,  quando Kamal ha presentato un nuovo piano nel quale riconsiderava il ricorso alla violenza come arma politica. Visto il fallimento dell’approccio pacifista, secondo questa nuova dottrina, la Confraternita avrebbe potuto fare un uso limitato della violenza, usandola contro le istituzioni del regime e mai contro i civili.

L’ inversione di marcia proposta da Kamal non è stata condivisa dalla storica leadership: né dalle briciole di quella rimasta attiva nel Paese, né  da quella rifugiatasi nella diaspora. Entrambe le fazioni lo hanno accusato di voler militarizzare la Confraternita. Secondo loro, tornare alla violenza – se pur limitata e mirata – non solo era errato ideologicamente – perché retrogrado – ma anche tatticamente, perché tale mossa avrebbe minato le relazioni internazionali dei Fratelli, elemento essenziale per la sopravvivenza della Fratellanza soprattutto nei periodi di clandestinità.  Per mettere i bastoni tra le ruote ai nuovi leader, la leadership storica della Confraternita ha formato una commissione d’indagine per congelare l’affiliazione di importanti membri della nuova leadership. A causa di queste crescenti tensioni, nel maggio 2016, Kamal ha annunciato le sue dimissioni. Cinque mesi più tardi è stato ucciso dalle forze di sicurezza.

Da una parte la repressione, dall’altra le frizioni interne. In queste condizioni, dopo la morte di Morsi, la Fratellanza ha messo nero su bianco il suo rifiuto a un confronto di strada con il regime di Al-Sisi. Una cosa abbastanza rara per un Movimento che in questi ultimi anni ha parlato a più voci e raramente ha rilasciato dichiarazioni programmatiche a fonti ufficiali. A indebolire ulteriormente la Confraternita, è infine il venir meno della sua proiezione esterna, un’attività che ha storicamente portato acqua al suo mulino, ma per la quale ora non ci sono energie. Il contesto regionale  – con l’ascesa dei sauditi a discapito di qatarini e turchi – e quello internazionale capeggiato dagli Stati Uniti di Trump – che hanno nuovamente minacciato di includere la Fratellanza musulmana nella lista delle organizzazioni terroristiche- non portano poi acqua al suo mulino.

I Fratelli di Ennahdha
Nonostante la narrativa che si è accreditata negli ultimi decenni, non è mai esistita fino ad ora una Internazionale della Confraternita islamista; ed è impossibile pensare che possa nascere ora. Questo non vuol dire che movimenti islamisti come Ennahdha, Hamas, i Fratelli giordani, libici e marocchini non abbiano osservato da vicino la Fratellanza, ritenendola la casa madre. Anzi, in Nord Africa il declino dei Fratelli egiziani – che potrebbe essere seguito da quello dei libici in caso di successo del generale Hàftar – ha mandato una chiara lezione ai vertici di Ennahdha – un movimento che è stato nei fatti la voce del nazionalismo tunisino -. Dopo aver osservato quanto subito dai Fratelli egiziani, quelli tunisini hanno intrapreso con convinzione e opportunismo la via del compromesso politico.

Tale decisione è stata seguita da un processo di riflessione interna ben riassunta dalla dichiarazione rilasciata da sheikh Rashed Ghannouchi nel maggio 2016 ad Hammamet. A marcare la storia di questo decimo congresso è stata l’adozione di una mozione secondo la quale l’attività politica di Ennahdha è stata separata da quella religiosa che è stata alla base della nascita di questo movimento, anch’esso per decenni costretto alla clandestinità. La decisione di sconfessare il termine “Islam politico” riflette anche argomenti concettuali e storici che rimandano alla nascita e alla ragion d’essere di Ennahdha. Secondo la ricostruzione di Ghannouchi, l’Islam politico emerse in risposta a due tendenze regionali che si sono per anni nutrite a vicenda: dittatura e laicità. Dopo che la rivoluzione tunisina ha eliminato la prima e ha liberato Ennahda dalla clandestinità, l’Islam politico non avrebbe più ragione di esistere all’interno del Paese.

Verso le presidenziali tunisine
Il nuovo percorso intrapreso dai Fratelli tunisini ha portato alla mossa a sorpresa di questo mese, quando la Confraternita – per la prima volta nella sua storia – ha deciso di candidare un suo uomo, il 71enne Abdelfattah Morou, alle elezioni presidenziali che inizieranno il 15 settembre e che quasi certamente arriveranno al ballottaggio. Una  mossa in parte motivata dai sondaggi – da prendere però con le pinze – che danno in pole position Nabil Karoui, conosciuto come il Berlusconi tunisino, visto che è il fondatore di Nesma tv, un’ emittente privata che ha anche capitale di Mediaset. E’ il nemico giurato degli islamisti e ora che gli emendamenti alla legge elettorale che dovevano impedirne la candidatura non sono passati, fa paura. Difficile però pensare che questa mossa ad effetto faccia breccia sia tra i tunisini che tra gli elettori della stessa Ennahdha, certamente numerosi. Nel Paese c’è fame di leader giovani.