1919: Luciolli e l’Italia alla conferenza di pace di Parigi
Negli anni scorsi si sono ampiamente commemorati lo scoppio e poi la conclusione della Grande Guerra; assai meno quest’anno la conferenza di Parigi che portò nel giugno 1919 al Trattato di pace di Versailles con la Germania e in settembre al trattato di Saint Germain con l’Austria. Quanto ora pubblicato dal sito baldi.diplomacy.edu/diplo/books/Luciolli c’induce a ripensarne alcuni aspetti.
La conferenza di Parigi e il suo impatto in Italia
Per l’Italia la conferenza di Parigi fu una pagina amara: se da un lato fu ammessa al tavolo delle altre tre potenze vincitrici, a differenza non solo dei vinti ma anche della Russia bolscevica e degli alleati minori (compreso il valoroso Belgio), dall’altro si sentì a volte trattata con sufficienza o con fastidio e ottenne solo in parte quanto promessole nel 1915 con il patto di Londra. Fu frustrata la richiesta di annettersi Fiume, che esulava da quel patto segreto, ma era conforme al principio wilsoniano di autodeterminazione (per quanto concerne la popolazione della città, non dei dintorni). Ne nacque il mito della “vittoria mutilata”, un’ondata di simpatia per l’arbitraria occupazione guidata da Gabriele D’Annunzio, la caduta dei governi Orlando, Nitti e Giolitti, la crescita del movimento nazionalista. Lo sbocco, con il concorso di altri fattori ( in primis la reazione all’occupazione delle fabbriche e ai moti contadini) fu l’affermarsi del fascismo.
A distanza di cento anni, l’indignazione dei rappresentanti italiani – il presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando e il ministro degli Esteri Sidney Sonnino – che per protesta abbandonarono nell’aprile 1919 la conferenza, e la delusione dell’opinione pubblica di fronte alla soluzione della città libera appaiono difficili da condividere. L’Italia otteneva il Trentino con l’aggiunta del Sud Tirolo, Trieste, Gorizia, buona parte dell’Istria, Zara e varie isole (inglobando anche popolazioni slave), ma protestava per la mancata aggiudicazione di altre zone della Dalmazia e soprattutto di Fiume. Pretendeva cioè, in quanto potenza vincitrice, che nel tracciare i confini si applicasse il principio di nazionalità sempre a suo vantaggio, combinandolo con il criterio strategico, a scapito degli slavi del Sud.
Il problema è che i croati e sloveni, pur avendo in grande maggioranza combattuto sotto le bandiere austro-ungariche, riuscirono a figurare fra i vincitori grazie alla nascente unione con la Serbia; e le loro ragioni trovarono ascolto presso gli alleati. Diversamente andò con l’Austria, trattata come potenza sconfitta: le fu imposto di cedere all’Italia il Sud-Tirolo, in deroga al criterio etnico.
Carte giocate male: l’opinione di Luciolli
Nella partita sul confine orientale la diplomazia italiana giocò male le proprie carte: questa l’opinione di un diplomatico che poco prima dello scoppio del secondo conflitto mondiale redasse “per il cassetto” una approfondita ricostruzione di quella vicenda, rimasta sinora inedita, e pubblicata ora, appunto, dal sito baldi.diplomacy.edu/diplo/books/Luciolli sotto il titolo “”Il problema italiano alla conclusione della pace dopo la (prima) guerra mondiale”.
Nel 1938 Mario Luciolli aveva 28 anni, era in carriera da cinque, lavorava nel gabinetto di Galeazzo Ciano. Dopo la seconda guerra mondiale avrebbe partecipato ad un’altra conferenza di pace a Parigi, per poi ricoprire importanti incarichi diplomatici, da ultimo per oltre un decennio come ambasciatore nella Germania di Erhard, Kiesinger, Brandt, Scheel e Schmidt.
Fu senza dubbio una delle migliori menti che abbia avuto la diplomazia italiana nei primi tre decenni del dopoguerra. Lo dimostrano i suoi lucidi rapporti, gli articoli pubblicati su numerosi giornali e periodici, una analisi della politica estera fascista uscita nel 1945 sotto pseudonimo (Mario Donosti, Mussolini e l’Europa, ed. Leonardo) e ripubblicata nel 2009 da ‘Le Lettere’ e il suo libro di memorie, uscito all’indomani della sua andata in pensione (M. Luciolli, Palazzo Chigi: anni roventi, ed. Rusconi, 1976) e ripubblicato nel 2011 (pure da ‘Le Lettere’).
Il testo del 1938 si interrompe di colpo. E si intuisce che l’Autore oltre ad aggiungere un capitolo conclusivo lo avrebbe limato da capo a fondo prima di darlo a un editore, appianando i percorsi diplomatici spesso tortuosi e non sempre di scorrevole lettura: basta confrontarlo con i due libri qui citati, che colpiscono per la loro lucidità e vivacità. E’ comunque un pregevole contributo alla storia diplomatica di quegli anni, frutto di una vasta esplorazione della letteratura storiografica allora esistente e delle memorie di molti dei protagonisti, italiani e stranieri.
Gli errori dell’Italia alla Conferenza di Parigi
Una delle tesi di Luciolli è che, non potendo ostacolare il risorgimento degli slavi del Sud, l’Italia avrebbe dovuto favorirlo e guidarlo, come diceva Bissolati, non lasciare questo ruolo alla Francia. Non si seppe valorizzare il credito acquisito con il salvataggio dell’esercito serbo ritiratosi in Albania, sul finire del 1915. Si perse l’occasione di coltivare le simpatie del ceco Thomas Masaryk, un ammiratore dell’Italia, che avrebbe potuto esercitare un’influenza moderatrice su Belgrado. Si sarebbe potuta capeggiare la formazione di un esercito cecoslovacco fra i numerosi prigionieri di guerra; lo fecero gli alleati.
Mentre Masaryk svolgeva una efficace azione di lobby negli Stati Uniti, e così pure i serbi, mancò secondo Luciolli un analogo sforzo italiano per accattivarci le simpatie del presidente Wilson, del suo consigliere House, e degli esperti del Dipartimento di Stato che studiavano i vari dossiers europei in vista di Parigi; non si fece valere la su-accennata considerazione che croati e sloveni avevano combattuto per l’Austria-Ungheria; non si sfruttò il fastidio suscitato negli inglesi dalle pretese massimalistiche del croato Trumbic: Trieste, Gorizia, tutta l’Istria e la Dalmazia, Fiume (e anche parte di Stiria e Carinzia!).
Constatato che gli obiettivi della guerra si erano andati modificando con l’intervento americano, e pur accettando l’idea di una “pace democratica”, Orlando omette di adattare le nostre rivendicazioni e di preparare l’opinione pubblica alla necessità di ridimensionarle. A Parigi non abbiamo una strategia coerente. Se lo stesso Orlando si fa interprete della passione patriottica dei fiumani, in nome del principio wilsoniano della autodeterminazione, anche a costo di concessioni sulla Dalmazia, Sonnino rimane ancorato agli interessi geopolitici e mette in primo piano il dominio dell’Adriatico, punta perciò alla annessione di ampie zone della Dalmazia benché nell’insieme gli slavi vi costituiscano la maggioranza.
Gli eventuali vantaggi di una flessibilità non dimostrata
Francesi e inglesi ci vedono ondeggiare fra il criterio etnico e quello geo-strategico, fra l’argomento giuridico (il patto di Londra va applicato) e quello della giusta ricompensa per i pesanti sacrifici sopportati (Fiume, non prevista da quel patto). Loro sostengono le ragioni di Wilson, ma in alternativa sono disposti ad onorare quanto sottoscritto nel 1915: in tal caso l’Italia avrà la Dalmazia, ma non Fiume.
Retrospettivamente, salta agli occhi l’inutilità delle tergiversazioni con gli alleati, del dissidio con Wilson, del teatrale gesto di abbandonare sia pur temporaneamente la conferenza, dell’affondamento di quattro governi, di scontri armati fra italiani e italiani, tutto per l’obiettivo della piena sovranità su Fiume. La soluzione concordata a Rapallo nel novembre 1920 – Fiume città libera, di fatto sotto influenza italiana – poteva essere ottenuta pacificamente nell’aprile 1919, alla vigilia della partenza di Orlando e Sonnino da Parigi, e in vari momenti successivi. L’annessione fu poi realizzata, ma in circostanze mutate, con l’accordo Mussolini-Pasic nel 1924.
Nel 1938 il giovane Luciolli si domandava se in cambio di una nostra flessibilità sullo status di Fiume non avremmo potuto conseguire importanti concessioni nella spartizione delle colonie o in campo economico. Oggi, quelle velleità coloniali ci appaiono poco opportune, al pari della sfera di influenza sul Sud-Est dell’Anatolia negoziata a San Giovanni di Moriana nel 1917 e presentata all’incasso nelle discussioni per il trattato di Sèvres. Pienamente condivisibile invece l’osservazione di Luciolli che la polarizzazione sulle questioni adriatiche e il modo rumoroso in cui i nostri rappresentanti avanzavano le loro sia pur giuste rivendicazioni non ci hanno fruttato una maggiore comprensione da parte dei nostri alleati. E soprattutto che l’assenza da Parigi in segno di protesta ha consentito loro di regolare in base ai propri interessi le questioni coloniali e altre e ha eroso lo status di membro del club delle quattro potenze vincitrici spettante all’Italia.