Ue e Usa/Russia/Cina: la questione geopolitica dell’europeismo
C’è una questione grossa che è altra rispetto a quelle sollevate da analisti e commentatori a proposito dell’elezione della futura presidente della Commissione europea. Che Ursula von der Leyen abbia ricevuto il voto favorevole di una maggioranza risicata, che fra i previsti sostenitori vi siano stati dei franchi tiratori e che apporti esterni siano stati decisivi per l’esito sono cose che succedono nelle migliori famiglie (in Italia se ne sa qualcosa) e continueranno a succedere in questo Parlamento dell’Unione, anche oltre il processo di completamento dell’esecutivo collegiale che ha sede a Bruxelles.
In buona parte la ‘normalità’ della vicenda parlamentare, dalla dialettica di poteri fra l’assemblea eletta e il Consiglio europeo, rappresentativo dei governi degli Stati membri (inevitabile nell’ibrido istituzionale intergovernativo/comunitario adottato dal trattato Maastricht) al tira-e-molla programmatico fra la candidata e i parlamentari potenziali sostenitori, riflette l’attenuarsi dell’allarme pre-elezioni che l’emiciclo avrebbe potuto risultare se non dominato, almeno fortemente condizionato dai sovranisti, che in campagna non avevano fatto mistero dell’intento di cambiare questo tipo di Unione europea in un’altra molto diversa. L’esito ha ridimensionato in parte l’allarme, così sottraendo motivi di coesione alla composita maggioranza ‘europeista’, peraltro sostanzialmente inedita nella storia del Parlamento europeo.
In gioco c’è il futuro dell’Europa tra ‘fuoco amico’ e vecchi nemici
Qui sta l’errore: nel non capire che c’è una questione più grossa delle diatribe istituzionali e delle scelte programmatiche interne, per quanto importanti siano le une e le altre. Si tratta del futuro dell’Europa. Esso è oggi sfidato da un complesso di minacce esterne, che, nella misura in cui lo stato di integrazione conseguito ne rappresenta una garanzia sistemica di prosperità economica e sopravvivenza geopolitica, lo mettono drammaticamente in questione. Approfondiamo la questione e vediamole, queste minacce.
Cominciamo dal ‘fuoco amico’. Il leader della prima potenza al mondo, nostra alleata e garante di sicurezza nonché primo partner economico, è un avversario dichiarato del processo di unificazione del Vecchio Continente. Questa avversione si inquadra coerentemente in quella per il multilateralismo sia transatlantico sia globale (Onu, Wto e lotta contro il riscaldamento terrestre) e investe la politica commerciale dell’Ue (preferendo i negoziati bilaterali con i singoli Stati membri, ovviamente squilibrati a suo favore) e gli abbozzi di politica estera (come nel caso dell’accordo con l’Iran) e di difesa (iniziative franco-tedesche) comuni. In più, calorosa amicizia è riservata ai nemici dell’integrazione, come i fanatici proponenti della Brexit, Nigel Farage prima e Boris Johnson adesso. Ora Donald Trump, che al suo irrompere sulla scena poteva apparire come un incidente di percorso auspicabilmente passeggero della democrazia americana, potrebbe essere rieletto per un secondo termine, fino al 2024, il che conferisce un carattere storico alla minaccia in questione.
Dall’Atlantico agli Urali. Il leader dell’altra superpotenza, dopo essersi ripreso la Crimea nella sola (finora) acquisizione territoriale in Europa del ‘dopo 1945’ e avere continuato a destabilizzare la situazione in Ucraina, ci spiega ora che il sistema liberal-democratico è superato. Il che non significa che sia vero, ma significa che lui sta facendo quello che può per renderlo tale. E infatti l’apparato di Putin non solo opera sistematicamente con i mezzi della tecnologia informatica per fare propaganda e diffondere fake news onde indebolire politicamente e culturalmente i partiti che in quel sistema si collocano, ma fa (o cerca di fare) avere fondi alle forze che ad esso si oppongono (prima la Le Pen, poi i neonazisti austriaci e la Lega nostrana). Succede che l’Unione europea sia, appunto, il principale baluardo della liberal-democrazia, per cui il sostegno ai sovranisti che la vogliono indebolire chiude semplicemente il cerchio.
Il terzo grande attore globale, la Cina, è passato nel corso dell’ultimo quinquennio dal ruolo di nostro partner commerciale cooperativo a quello di potenziale rivale dalle ambizioni globali, perseguite con modalità che ci indeboliscono, come far affari ‘pesanti’ con Paesi che violano sistematicamente i diritti umani, mentre l’Ue circa di introdurre delle condizioni di compatibilità, che così diventano un fattore di svantaggio competitivo. Xi Jinping è stato finora sostenitore, almeno a parole, del multilateralismo, ma ha accentuato il controllo dello Stato-partito sull’economia e sulla capacità tecnologica nazionali, mentre sfrutta il bilateralismo e mercantilismo a somma zero propugnati da Trump per avanzare i potenti interessi di quella che è oggi la prima potenza demografica e sarà domani la prima potenza economica del mondo.
Ci sono poi attori minori (ma più vicini): come la Turchia, formalmente ancora un candidato all’adesione all’Unione, ma ora messa da Erdogan su una china autoritaria e religiosa; o come i Paesi dell’arco Nord Africa-Medio Oriente, ieri teatro delle rivolte ottimisticamente chiamate Primavere arabe e oggi quasi tutti sede di regimi autoritari e oppressivi. Tutti in fila a testimoniare per parte loro che Putin potrebbe non avere tutti i torti. Ma l’elenco delle minacce minori rischia di essere lungo.
La dialettica politica nella sfera integrata
Torniamo invece alla questione di partenza, alla dialettica politica nella sfera integrata. Se è del tutto normale che i Popolari europei perseguano i loro obiettivi e così facciano i Socialisti, i Verdi e i Liberali (ché anzi tale normalità può essere segno di forza democratica dell’Unione), la loro comune etichetta di ‘europeisti’ non dovrebbe limitarsi ad arginare l’offensiva dei sovranisti mirante a indebolire le istituzioni comuni e a riportare poteri alla sfera nazionale, bensì avere ben chiare le sfide esterne – sistemiche, geo-politiche e geo-economiche – e individuare le conseguenti priorità in termini di quella che gli inglesi chiamano “bi-partizan foreign policy” e i francesi “la politique de l’interet collectif”.
Il fatto che fra gli interlocutori di queste sfide vi siano le tre più grandi potenze al mondo (nei vari significati della parola potenza) indica che affrontarli – per collaborare tanto quanto per farsi rispettare – è più fattibile se si opera in maniera congiunta anziché separatamente, Stato per Stato. Il che si salda logicamente con l’antinomia fra le forze europeiste e quelle sovraniste, tutte o quasi tutte di destra o estrema destra, tutte o quasi tutte amiche dei nemici dell’Europa unita.