Ue: nomine, un successo franco-tedesco con l’Italia a bordo campo
La prima reazione è ovviamente di sollievo. Che al terzo tentativo, dopo estenuanti consultazioni, e interminabili maratone negoziali, il Consiglio europeo sia riuscito ieri in extremis a trovare un accordo sul pacchetto di nomine ai vertici delle istituzioni dell’Ue è di per sé una buona notizia. Altrettanto importante la notizia di oggi dell’elezione, al secondo scrutinio, di David Sassoli, italiano ed esponente dei socialisti e democratici, alla presidenza del Parlamento europeo.
Certo sarebbe stato un clamoroso segnale di divisione e incertezza se i capi di Stato e di governo non fossero riusciti a trovare una intesa prima della seduta solenne del Parlamento europeo che doveva eleggere il suo presidente. Ma il rischio era molto concreto perché il quadro politico emerso dai risultati delle elezioni europee del 26 maggio scorso era molto più complesso e articolato di quello della precedente legislatura. Perché la nuova maggioranza in Parlamento dovrà necessariamente essere più ampia della sperimentata alleanza fra popolari e socialisti che aveva caratterizzato le precedenti legislature. Ed infine perché il rifiuto del metodo degli ‘spitzenkandidaten’, apertamente contestato da vari e autorevoli membri del Consiglio europeo, aveva provocato il rischio di uno scontro fra Consiglio e Parlamento.
I discorsi sul metodo e la solidità dell’asse franco-tedesco
Ora c’è l’accordo e non possiamo che rallegrarcene. Se però andiamo a vedere più da vicino come si è arrivati all’accordo e alle singole personalità designate, forse qualche precisazione si impone. Quanto al metodo, piaccia o non piaccia a qualcuno in Italia, l’accordo raggiunto suggella ancora una volta la solidità dell’asse franco-tedesco. Angela Merkel e Emmanuel Macron, dopo aver fallito il primo tentativo, concepito a Osaka e respinto soprattutto perché non sufficientemente condiviso, hanno di nuovo dato le carte e si sono aggiudicati le due posizioni più importanti.
La Merkel, che qualcuno dava ormai sul viale del tramonto, anche per avere dovuto rinunciare al suo candidato, che era anche candidato ufficiale dei popolari (quel Manfred Weber da molti giudicato non all’altezza dell’incarico), ottiene l’obiettivo che aveva in mente da tempo, e sul quale aveva puntato, sapendo che la presidenza della Bce era un obiettivo molto più difficile da ottenere. La nuova presidente della Commissione sarà infatti la sua fedelissima ministra della Difesa, Ursula von der Leyen, una esponente di punta della Cdu, certamente ottima ministra della Difesa, ma di cui si conosce poco se non che ha fama di rigorista.
Macron ottiene la presidenza della Bce per Christine Lagarde, la candidata francese probabilmente più autorevole e più titolata per quella posizione, cui la Francia teneva particolarmente sapendo di dovere cedere la Commissione alla Germania. E’ una nomina che rassicura quanti temevano una discontinuità alla Bce rispetto alla linea di Draghi.
Sanchez, molto attivo in questa fase, in proprio e come rappresentante dei socialisti, ottiene per la Spagna e il gruppo socialista la posizione di Alto Rappresentante per Josep Borrell, sperimentato politico di lungo corso, già presidente del Parlamento europeo, con grande esperienza e standing internazionale. E alla famiglia dei liberali tocca, come premio di consolazione, la posizione di Presidente del Consiglio europeo, con il primo ministro belga in carica Charles Michel, in un incarico che a prima vista appare ridimensionato a quello di “honest broker” fra i capi di Stato e di governo.
Un pacchetto all’insegna della continuità, tanti a bocca asciutta
Tutto compreso quindi un pacchetto di nomine all’insegna della continuità, con buona pace di chi (soprattutto in Italia) aveva ingenuamente immaginato che con le elezioni del 26 maggio l’Unione europea avrebbe voltato pagina e cambiato rotta.
Restano a bocca asciutta da questo pacchetto di nomine i Paesi di Visegrad e più in generale tutti i cosiddetti nuovi membri (quelli entrati nell’Ue dopo il 2004). Restano a bocca asciutta i partiti delle varie e frammentate famiglie nazionaliste e sovraniste, perché malgrado il risultato elettorale del 26 maggio, peraltro circoscritto ad alcuni Paesi, continuano ad essere una minoranza tutto sommato marginale nelle dinamiche del Parlamento europeo. Resta a bocca asciutta il Regno Unito che si considera ormai fuori e aveva anticipato che si sarebbe astenuto sulle nomine. Quanto all’Italia non aveva realisticamente nessuna “chance” replicare l’exploit della legislatura che si sta concludendo.
Sul ruolo svolto dall’Italia in questa vicenda verrebbe da dire tutto si è svolto come da copione. Con la complicazione che in questa circostanza il presidente del Consiglio si è trovato a dover gestire contemporaneamente la questione delle nomine e quella della procedura di infrazione per deficit eccessivo. Conte è indubbiamente riuscito (per ora) a contenere i danni sul fronte della procedura di infrazione, malgrado le intemperanze verbali dei due azionisti di riferimento del governo. Ma oggettivamente non poteva fare miracoli sulle nomine. Dopo avere annunciato che avrebbe gestito personalmente il dossier, è stato costretto da Salvini ad opporsi alla candidatura di Frans Timmermans alla presidenza della Commissione (un olandese atipico, ma sicuramente più vicino alla sensibilità italiane su tanti temi). E alla fine ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco accettando il pacchetto franco-tedesco come il minore dei mali.
Si sono così rivelate corrette quelle previsioni che vedevano l’Italia marginalizzata in Europa, come risultato della collocazione in Europa dei due partiti di governo, con la Lega in un gruppo minoritario di nazionalisti euro-scettici e i Cinque Stelle addirittura costretti a stare nel gruppo misto perché incapaci di trovare alleati nel Parlamento europeo. Si aggiunga che il Governo italiano e la maggioranza che lo sostiene hanno anche dovuto registrare lo scacco di vedere eletto un esponente dell’opposizione alla presidenza del Parlamento.
Ora per l’Italia si apre la partita del commissario (che ci spetta di diritto). Bisognerà che qualcuno si ricordi che, se vogliamo concorrere per un portafoglio ‘pesante’, il nostro candidato dovrà essere competente e professionalmente attrezzato, dovrà avere il gradimento della presidente della Commissione e infine dovrà superare un giudizio del Parlamento che quest’anno potrebbe essere anche più severo che nel passato.
A questo punto c’è da augurarsi che il Parlamento, possibilmente con ampia maggioranza, dia l’investitura alla Von der Leyen come previsto dai Trattati. Ma non sarà un passaggio facile né scontato. La presidente designata dovrà dare prova di grande abilità e sensibilità se vorrà compattare una maggioranza ampia di popolari, socialisti, liberali e verdi a sostegno del suo programma per la legislatura.