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Ue: nomine, il coniglio von der Leyen dal cilindro di Angela Merkel

3 Lug 2019 - Gianni Bonvicini - Gianni Bonvicini

Sembra il classico coniglio estratto dal cilindro del prestigiatore. Con un inaspettato soprassalto di orgoglio, frutto di una lunghissima esperienza politica, la cancelliera Angela Merkel è riuscita martedì a riprendere nelle proprie mani e a proprio vantaggio il gioco delle nomine europee, che non le era riuscito il giorno prima. L’indicazione della sua prediletta, ministro della Difesa, Ursula von der Leyen a ricoprire la carica di presidente della Commissione europea e la contemporanea concessione alla Francia della presidenza della Banca centrale europea (Bce) a Christine Lagarde ha rimesso in piedi in un solo colpo l’asse franco-tedesco e ha ribadito il concetto che senza la guida della Germania l’Unione non va da nessuna parte. Un colpo di genio, in gran parte mediatico, è stata anche la proposta di nominare due donne ai massimi vertici dell’Unione, non solo perché si tratta di una prima assoluta nella storia comunitaria, ma anche perché nessuno ha avuto il coraggio di opporsi a questa novità.

Le crescenti debolezze dell’attuale assetto comunitario
Eppure fino a qualche ora prima un vasto fronte di Paesi sovranisti, fra cui l’Italia, si erano opposti al diverso schema, lungamente elaborato dal duo Merkel-Macron, di un socialista olandese, Frans Timmermans, alla testa della Commissione e di un tecnico francese, il banchiere Villeroy de Galhau, a capo della Bce. Uno schema che dava meno peso diretto a Berlino e a Parigi e che apriva parzialmente alla richiesta del Parlamento europeo di prendere in considerazione la procedura degli Spitzenkandidaten, di collocare cioè alla presidenza della Commissione uno dei candidati alle elezioni europee, cosa che si sarebbe verificata con Timmermans, capolista dei socialisti europei. Malgrado ciò, questa proposta originaria è stata accantonata. Questo episodio ha tuttavia permesso di mettere in luce una serie di crescenti debolezze dell’attuale assetto comunitario.

La minore credibilità dell’asse franco-tedesco
La prima è certamente la constatazione di una minore credibilità dell’asse franco-tedesco. Il presidente francese Emmanuel Macron, dopo i grandi ed ispirati discorsi sull’Europa, è oggi ripiegato su se stesso in difesa della propria presidenza messa a rischio sia dalla non brillante situazione economica che dalla lunghissima rivolta dei gilet gialli. Dall’altra parte, la sua ‘naturale’ spalla tedesca, la Merkel, prima non ha risposto alle sue aperture europeiste e successivamente si è trovata lei stessa in difficoltà interne a causa degli scarsi risultati elettorali nazionali e della precarietà della Grosse Koalition con i socialdemocratici.

I due tradizionali motori dell’integrazione europea, Francia e Germania, mostrano quindi crescenti difficoltà nel dettare ai propri partner le scelte da perseguire. Agiscono solo in modo tattico, cercando di portare a casa qualche risultato utile per se stessi, ma senza la capacità di aggregare attorno a loro la grande maggioranza dei Paesi europei e delle forze politiche più rappresentative. Si spiega così la debacle tattica sulle nomine della cancelliera Merkel, che con il suo piano originario non è riuscita a convincere né la necessaria, ampia maggioranza dei suoi colleghi di governo e neppure il proprio partito europeo di riferimento, il Ppe. Anzi, quest’ultimo si è ribellato all’indicazione del socialista Timmermans al posto del proprio leader, il bavarese Manfred Weber, che tra l’altro si era piazzato primo alla testa del Ppe nelle ultime elezioni europee, battendo proprio i socialisti.

Un quadro politico europeo sempre più frammentato
Questa vicenda ci porta a sottolineare una seconda debolezza e cioè quella di un quadro politico europeo sempre più frammentato. Si ha un bel dire che queste ultime elezioni europee hanno confermato la schiacciante prevalenza delle forze europeiste: ci si consola sottolineando che i vari Salvini, Le Pen e alleati di estrema destra hanno messo assieme solo 73 seggi su un Parlamento di 751, circa il 10%.

Ma nella realtà le forze sovraniste sono molto più numerose e si mimetizzano all’interno stesso dei grandi partiti europeisti, come è il caso del partito nazionalista dell’ungherese Orbàn nel Ppe o di quello del premier ceco Babis nei Liberali europei. Sono poi da aggiungere a questo variegato fronte Paesi come Italia e Polonia che si muovono al di fuori dei tradizionali schieramenti partitici comunitari. Facile quindi oggi mettere assieme questa molteplicità di interessi politici nazionalisti, allorquando per i motivi più disparati si debba semplicemente dire di no a proposte che vengono calate dall’alto. Di qui il grande rifiuto da circa 11 Paesi di fronte al primo schema di nomine proposto da Merkel con l’accordo di Macron.

Un Parlamento europeo tagliato fuori dai giochi politici
Infine, ed è questa la debolezza ancora più preoccupante, da tutti questi giochi sulle nomine è stato tagliato completamente fuori il Parlamento europeo, che ha dimostrato in questo periodo post elettorale tutta la propria inconsistenza politica. Lo sfregio più grande è stata l’indicazione da parte di Angela Merkel di attribuire a Manfred Weber, cui era stata sottratta la nomina al vertice della Commissione, la presidenza magari per cinque anni dell’Assemblea di Strasburgo. Come se il Parlamento fosse una semplice appendice delle decisioni del Consiglio europeo e non un organismo politicamente e istituzionalmente autonomo.

Eppure è il Parlamento di Strasburgo che legittimerà poi le nomine ai vertici europei, a cominciare dal presidente della Commissione che dovrà ricevere il voto di fiducia parlamentare per entrare in funzione. Proprio per sottolineare questo fondamentale ruolo, il Parlamento europeo già nella precedente legislatura aveva inventato il sistema degli Spitzenkandidaten. Era il Parlamento, in altre parole, che dava indicazione al Consiglio europeo sul nominativo per la presidenza della Commissione in base ai risultati elettorali e ai rapporti di forza interni fra i partiti.

Il Consiglio, quindi, per prassi doveva solo confermare la carica. Così era stato per Jean-Claude Junker il presidente uscente della Commissione. Oggi questa procedura è scomparsa del tutto. Se, infatti, con il primo schema di nomine veniva preso in considerazione dal Consiglio europeo il socialista Timmermans, in qualche misura si riconosceva l’indicazione uscita dalle elezioni (anche se arrivato al secondo posto dopo il popolare Weber).

Al contrario, con la nuova proposta uscita inaspettatamente dal cilindro di Angela Merkel non si può davvero dire che Ursula von Leyen rispetti questo meccanismo. Non ha neppure partecipato alle elezioni europee. Non vi è dubbio quindi che quel poco spazio di potere sulla gestione delle cariche apicali, guadagnato con grandi battaglie dal Parlamento europeo, si sia oggi definitivamente chiuso.

Non è questa davvero una buona notizia per chi tiene ad accrescere la democrazia in un’Unione sempre più guidata dai governi a scapito dell’unica istituzione rappresentativa fino ad oggi esistente. Magari vi sono altre strade, al di là di quella degli Spitzenkandidaten, per riaffermare un ruolo più centrale del Parlamento di Strasburgo. Ma non vi è dubbio che quella di oggi va in ogni caso annoverata come una piccola e significativa sconfitta del Parlamento. Sarà davvero un compito tutto in salita quello che dovrà affrontare l’appena designato presidente, David Sassoli, che per ora rappresenta l’unica carica europea nel pieno delle sue funzioni. Il modo con cui guiderà il Parlamento nel gestire il prossimo insediamento della Commissione, presidente e collegio dei commissari, rappresenterà un’importante cartina di tornasole sulla vitalità e sul futuro di questa istituzione.