Migranti: chiusura dei porti, respingimenti e arrivi illegali
Le recenti e continue polemiche sui modi per impedire un afflusso indiscriminato di migranti sulle coste italiane, e in particolare sulla chiusura dei porti, hanno messo in luce come occorra individuare meccanismi per disciplinare il fenomeno, che siano nello stesso tempo efficaci e conformi alla normativa internazionale.
La chiusura dei porti
La prima misura che ha suscitato aspre reazioni è quella della chiusura dei porti, disposta dal cosiddetto Decreto Sicurezza bis. La chiusura è lecita secondo il diritto internazionale? Direi di sì. Senza scomodare improbabili sentenze della Corte internazionale di giustizia (Cig), richiamate erroneamente, basti citare la Convenzione sul regime internazionale dei porti, entrata in vigore nel 1927, che concede l’accesso a titolo di reciprocità.
Ciò significa che l’accesso ricade sotto la discrezionalità dello Stato costiero, sempre che non esista un trattato che conceda tale diritto agli Stati contraenti. Né può essere invocato il diritto di passaggio inoffensivo stabilito dal diritto del mare a favore di tutte le bandiere. Tale diritto vale per l’ingresso e l’uscita dal porto, purché lo Stato costiero abbia accordato l’accesso alla nave straniera.
Tra l’altro, secondo l’art. 25, comma 2, della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, lo Stato costiero può prendere le misure necessarie per prevenire la violazione alle condizioni stabilite per l’accesso alle acque interne e quindi ai porti. Anche la Corte europea dei diritti dell’uomo, pronunciandosi sulle misure provvisorie nel caso della Sea Watch (25 giugno 2019), non ha affermato che all’Italia incombesse l’obbligo di far approdare la nave in un porto sotto la sua sovranità. Ha solo preso atto dei soccorsi che erano stati prestati, confidando che, all’occorrenza, questi non sarebbero mancati.
Ovviamente il diritto dello Stato costiero di chiudere i porti deve essere contemperato, nel caso concreto, con “elementari considerazioni d’umanità”, per dirla con la giurisprudenza della Cig, o con più esplicite cause di esclusione del fatto illecito come lo stato di necessità, la forza maggiore o l’estremo pericolo, che potrebbero indurre il comandante della nave ad entrare in un porto altrui, nonostante il divieto.
Ciò detto, è da chiedersi se la politica della chiusura dei porti si sia rivelata un efficace contrasto contro l’immigrazione illegale. Direi di no, o comunque ha avuto un’efficacia solo parziale. A parte l’ingresso di navi come la Sea Watch, che hanno osato sfidare divieti e mezzi di contrasto, la chiusura dei porti è inefficace nei confronti dei numerosi migranti che usano piccoli natanti per sbarcare sulle nostre coste.
Ricerca e Salvataggio
La salvaguardia della vita umana in mare è uno dei principi fondamentali del diritto internazionale del mare. Tale principio è previsto e disciplinato dall’art. 98 dell’omonima Convenzione delle Nazioni Unite, nonché da due convenzioni stipulate qualche decina di anni fa: la Convenzione sulla sicurezza della vita umana in mare (Solas, nell’acronimo inglese) del 1974 e la Convenzione sulla ricerca e soccorso in mare (Sar nell’acronimo inglese) o Convenzione di Amburgo del 1979.
Tale complesso normativo è stato stipulato per far fronte a naufragi occasionali e, in via interpretativa, si cerca di applicarlo alle migrazioni mediterranee, ma a questo fine la normativa è completamente inadeguata, nonostante gli emendamenti apportati, ad esempio quelli del 2004. Basti ricordare che la Convenzione di Londra sul salvataggio del 1989 dispone che colui che opera il salvataggio abbia diritto a una ricompensa per l’opera prestata!
Il Protocollo di Palermo contro il traffico di migranti (2000), stipulato nel quadro delle Nazioni Unite, detta disposizioni per fare fronte al fenomeno, prevedendo anche il fermo della nave dedicata ai traffici. Ma in alto mare una nave battente bandiera altrui può essere fermata solo con il consenso dello Stato della bandiera o su autorizzazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, come è avvenuto per l’operazione Eunavformed Sophia. In ogni caso si potrebbe agire contro i barconi dei migranti sul presupposto che siano natanti non immatricolati e privi di nazionalità.
Blocco navale e interdizione marittima
Il blocco delle coste libiche è operazione impraticabile. Si tratta di misura attuabile in un contesto bellico. In tempo di pace, il blocco è un’operazione vietata e addirittura rientra nel catalogo degli atti aggressivi, secondo l’omonima risoluzione delle Nazioni Unite. Tra l’altro il blocco, che dovrebbe essere attuato mediante una considerevole forza navale, comporta che nessuna nave possa entrare o uscire dalla costa bloccata. Nel caso concreto, si tratterebbe di un blocco parziale, volto ad impedire il trasporto di migranti ed attuato solo in uscita dalle coste libiche. Ma è impensabile che le navi cariche di emigranti siano scoraggiate dal blocco, la cui violazione comporterebbe la confisca della nave, ma necessariamente il salvataggio delle persone che si trovano a bordo.
Anche le misure di interdizione marittima sarebbero difficili da attuare. L’interdizione comporterebbe la messa in opera di mosse cinetiche volte ad impedire che la nave prosegua la navigazione per costringerla al ritorno nel porto di origine. Ma la sua attuazione pratica sarebbe tutta da dimostrare, essendo difficile pensare che il natante carico di migranti si lasci intimidire e inverta la rotta. Tra l’altro la politica di interdizione da noi attuata nei confronti delle navi provenienti dall’Albania si risolse in un disastro navale e dovette essere interrotta.
Il divieto di espulsione verso Stati che non rispettano diritti umani
Come dimostrano recenti e passate vicende lo Stato italiano finisce per essere responsabile del destino di centinaia (se non migliaia) di persone, quantunque entrate illegalmente in Italia o soccorse nelle operazioni marittime o addirittura consegnate alla guardia costiera libica o comunque da questa recuperate mediante l’assistenza italiana. Si tratta di condotte che potrebbero integrare la violazione delle disposizioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Potrebbe il governo italiano dichiarare sospesi i diritti accordati dalla Convenzione sul presupposto che le ricorrenti ondate immigratorie mettono in pericolo la vita della nazione?
Teoricamente sì. Ma si tratterebbe di un’arma scarica, poiché non possono essere in alcun modo sospesi i divieti che impediscono di sottoporre un individuo a trattamenti inumani e degradanti. Tutti i meccanismi sopra individuati (blocco, interdizione, consegna dei migranti, direttamente o indirettamente a organi dello Stato straniero responsabile di tortura o trattamenti assimilabili) potrebbero integrare una violazione delle norme internazionali. Ciò vale, in linea di principio, anche per gli accordi di riammissione e l’espulsione di migranti in situazione irregolare, provenienti da Stati i cui quarti di democraticità e rispetto dei diritti dell’uomo lasciano a desiderare, per esprimerci con un eufemismo.
Misure possibili
Non esistono misure che possano risolvere immediatamente, e una volta per tutte, il fenomeno delle migrazioni illegali. Si può solo pensare a programmi, che richiedono un notevole lasso di tempo per la loro attuazione. Un punto fermo è comunque il seguente: gli Stati europei non possono mettere in pericolo le libertà conquistate, che debbono essere applicate a tutti gli individui, cittadini e stranieri, che ricadono sotto la loro giurisdizione.
Ciò detto, occorre dare una realistica interpretazione delle norme. Ad esempio, come si fa a sostenere che il trasferimento di migranti su una motovedetta libica integri gli estremi di un’espulsione in massa? Si dovrà, appena se ne presenta l’occasione, operare in modo che la Corte di Strasburgo riveda la giurisprudenza precedente. Eguali considerazioni valgono, anche se solo in parte, per la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati. Addirittura, secondo un’opinione supportata dai lavori preparatori, la Convenzione non si applicherebbe in alto mare!
Occorre anche prevedere politiche di riammissione, che non comportino l’accusa di espulsione dei migranti illegali verso luoghi dove sono sottoposti a trattamenti inumani e degradanti. Non si tratta di esportare la democrazia, ma l’Ue potrebbe essere determinante con una politica (effettiva) di condizionalità.
Ovviamente non si possono criminalizzare le Ong, che sono espressione fondamentale delle democrazie liberali. Tuttavia, esse non possono pretendere di sostituirsi agli Stati nell’opera di ricerca e soccorso, che è compito primario dei governi, che devono tenere conto delle esigenze umanitarie, ma anche di quelle di sicurezza. Un discorso che deve essere affrontato a livello europeo mediante una disciplina uniforme. La missione Eunavformed Sophia non ha più una componente navale e non ha potuto completare il suo ruolo, che avrebbe comportato la distruzione dei battelli degli scafisti sulle coste libiche.
La Libia è il principale fattore di instabilità, in buona parte responsabile dell’impossibilità di attuare politiche di respingimento conformi ai diritti dell’uomo. La trasformazione della Libia da Stato fallito a Stato effettivo postula una politica di intervento (robusto) da parte del Consiglio di Sicurezza dell’Onu per il momento impensabile. Occorre ricollocare i flussi migratori su canali regolari ed è necessario una effettiva politica europea attualmente carente. Senza dimenticare i lavori nel quadro delle Nazioni Unite, essendo l’immigrazione illegale un fenomeno globale. L’Italia, insieme ad altri Stati europei, si è astenuta in occasione dell’adozione del Global Pact for Migration adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite alla fine del 2018. Invece di boicottare il Patto, che non è uno strumento vincolante, occorre proporre, in occasione dei lavori preparatori delle riunioni collegiali e in altri consessi previsti dal Patto, politiche realistiche ed efficaci.