Johnson premier: tra la Brexit e il trionfo del ‘trumpismo’
È iniziata l’era di Boris Johnson, neo-leader dei conservatori britannici e nuovo primo ministro del Regno di Sua Maestà. Proprio come i cugini yankee, i britannici hanno deciso di scommettere su una figura eccentrica, col fare da ‘stand-up comedian’ e un biondissimo ciuffo che già da tempo gli ha procurato una serie di soprannomi, tra cui “nicer Donald Trump” e “blonde bombshell” (la bomba bionda).
Non è corretto però parlare di britannici in termini generali. A sceglierlo è stata infatti un’esigua minoranza della popolazione, i 160 mila iscritti al Partito conservatore. Di questi, il 66% ha espresso la propria preferenza in suo favore, relegando l’altro candidato, Jeremy Hunt, ex ministro degli Esteri, al ruolo di eterno secondo con 46 mila voti.
Come da copione, quel piccolo ma decisivo 0.2% dell’elettorato britannico complessivo non poteva che scontentare una parte considerevole dell’opinione pubblica restante, scesa a manifestare davanti a Westminster ancor prima che Johnson venisse formalmente proclamato vincitore. E ancora, subito prima di ricevere l’incarico, ostacolando il suo cammino verso Buckingham Palace.
Dal giornalismo alla politica
Che Alexander Boris de Pfeffel Johnson, nato a New York 55 anni fa, fosse un candidato quanto meno discutibile alla poltrona che fu di Winston Churchill era noto a tutti. E a testimoniarlo c’è una lunga serie di gaffe e spudorate bugie che l’hanno reso (orgogliosamente) pop.
Prima di approdare alla politica, dopo gli studi al prestigioso college di Eton – quello frequentato dai rampolli reali per intenderci – e la laurea a Oxford, si è dedicato all’attività giornalistica, grazie alla quale si è guadato il licenziamento dal Times per avere fabbricato ad arte una dichiarazione. Senza contare gli imbarazzati scivoloni dalle colonne del Telegraph e dello Spectator, sui matrimoni gay e sulle donne musulmane che indossano l’hijab (ha affermato che assomigliano a delle cassette postali o a dei rapinatori di banca).
A questi vanno a sommarsi le bufale diffuse nella campagna referendaria del 2016 – mai ritrattate – sui 350 milioni di sterline da versare ogni settimana nelle casse dell’Ue, per le quali era stato trascinato anche in tribunale, e le scappatelle (anche quelle mai smentite) che si è concesso durante i suoi due matrimoni, prima di fare coppia fissa con l’attuale fidanzata trentunenne Carrie Symonds. Fino all’ultimo episodio durante un comizio a Londra, nel quale brandendo un’aringa sottovuoto ha rimarcato l’inutilità e la dannosità di una legge europea sugli alimenti. Peccato solo che la norma in questione fosse ‘made in Britain’.
Un premier di rottura
La storica vocazione atlantica del Regno Unito si è dunque palesata appieno con Johnson e non solo in campo politico. Un tempo chi abitava al n. 10 di Downing Street era sottoposto a uno screening cavilloso della propria vita pubblica e privata ed era sempre tenuto a rispondere delle proprie parole e azioni di fronte all’opinione pubblica. Ora, il “politically incorrect” può dirsi sdoganato anche nel Regno Unito.
L’elezione di BoJo – un altro dei suoi nickname – sembra così ricordare gli eventi che hanno preceduto quella di Donald Trump il quale nel gennaio 2016 aveva dichiarato: “Potrei sparare a qualcuno sulla Quinta Strada e non perderei nemmeno un voto”.
In linea con il trend mondiale, il Trump britannico si è rivelato pertanto una figura divisiva, e distruttiva, rispetto alla tradizione politica precedente e persino all’interno della sua stessa famiglia. “Quoque tu, Boris?” avrà pensato infatti suo padre, Stanley Johnson, fervente europeista della prima ora e tra i nove fondatori del Club del Coccodrillo, gruppo nato in forma spontanea per riformare le istituzioni comunitarie. E altrettanto suo fratello Jo (ex ministro dei Trasporti) e sua sorella Rachel, giornalista, ex militante del movimento anti-Brexit Change Uk. Il minore Leo, invece, forse proprio per mantenere l’equilibrio familiare, ha scelto di disinteressarsi in toto alla politica.
La Brexit secondo Johnson
Quella auspicata dal platinato premier è una Brexit “senza se e senza ma”. E da brexiteer convinto, annunciando l’inizio di una nuova età dell’oro per il Paese, ha formato una squadra di governo di veri ultras.
Come suo braccio destro al ministero dell’Economia ha nominato Sajid Javid, ex direttore di Deutsche Bank, mentre a Dominic Raab e Priti Patel – entrambi dimissionari dal governo May, l’uno perché contrario alla linea soft tenuta dall’esecutivo, l’altra per non aver dichiarato i contatti avuti con dei funzionari israeliani – ha assegnato gli Esteri e gli Interni. Al ministero per la Brexit ha invece confermato Stephen Barclay, l’ultimo ad aver ricoperto questo ruolo; mentre spicca al dicastero dei rapporti con la Camera dei Comuni il falco Jacob Rees-Mogg.
Il team, epurato dagli elementi più moderati, è dichiaratamente orientato a portare a casa la Brexit: con un accordo migliore di quello di Theresa May, per quanto non ci siano soluzioni concrete all’orizzonte, e rispettando la scadenza del 31 ottobre. “Il no deal sarà scongiurato”, ha ripetuto come un mantra, quasi fosse terrorizzato dal fallimento. Eppure nel suo gabinetto un’uscita dall’Ue senza accordo sembra essere tuttora preferibile alla bozza già confezionata.
Il futuro prossimo del Paese
Dall’imprevedibile Boris ci si può aspettare comunque davvero di tutto. Ogni scenario – dall’eventualità di un nuovo referendum a quella di rivendere il May deal con qualche ritocco esteriore – è ancora aperto. Da Bruxelles, in ogni caso, l’ipotesi di riaprire l’intesa è stata categoricamente esclusa, fatta eccezione per la possibilità di aggiustare la dichiarazione politica annessa alla bozza di divorzio.
La prospettiva delle elezioni anticipate, come aveva pronosticato il suo compagno di merende Nigel Farage, trionfatore alle europee di maggio col Brexit Party, sembra al momento la più quotata. E chi può dire che in tal senso non ci si debba preparare a un altro colpo di scena?