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Fumata nera al Consiglio europeo

Ue: bruciati gli Spitzenkandidaten, ci si riprova il 30 giugno

22 Giu 2019 - Gianni Bonvicini - Gianni Bonvicini

Nessuna vera sorpresa a Bruxelles. Era abbastanza scontato che il Vertice europeo non avrebbe potuto raggiungere il necessario consenso nell’indicare i nomi dei candidati alle massime cariche dell’Ue. Se cinque anni fa, nel 2014, si è dovuta attendere la fine di agosto per nominare Jean-Claude Juncker a presidente della Commissione europea, oggi in una situazione politica e di equilibri fra gli Stati membri infinitamente più complessa le speranze di un miracolo erano ridotte al lumicino.

Per di più, nel 2014 si sperimentava per la prima volta la procedura informale degli spitzenkandidaten, che forniva un’indicazione precisa al Consiglio europeo sulla scelta del nome, Juncker appunto, e della famiglia politica, i Popolari europei (Ppe), che aveva vinto nettamente le elezioni europee.

Prima di trovare i nomi giusti, fatti fuori quelli indigesti
Nell’occasione attuale, invece, all’interno del Vertice si è più che altro proceduto all’eliminazione dei tre leader che meglio si erano piazzati nella tornata elettorale: Manfred Weber per il Ppe, Frans Timmermans per i Socialisti e Margrethe Vestager per i liberali. In altre parole, invece di sforzarsi a cercare il nome del nuovo presidente, nella riunione di Bruxelles si è innanzitutto puntato a togliere di torno le candidature indigeste al Consiglio stesso.

Le ragioni sono notoriamente due. La prima è che per diversi capi di Stato e governo, a cominciare da Emmanuel Macron, il sistema degli spitzenkandidaten non è accettabile (anche in punta di diritto), dal momento che toglie al Vertice una prerogativa (quella di scegliere il nome gradito), che esso vuole tenere saldamente nelle proprie mani. La seconda, più preoccupante, è che neppure a livello di grandi famiglie partitiche europee si è trovato l’accordo per dare un’univoca indicazione per il posto di presidente della Commissione.

E’ questo un primo chiaro effetto della frammentazione partitica all’interno del nuovo Parlamento europeo. Non è quindi tanto la crescita dei partiti sovranisti a mettere in difficoltà la partita sulle nomine apicali nelle istituzioni comunitarie, quanto la debolezza del vasto fronte europeista. In effetti, rispetto al passato, non sono più i Popolari e i Socialisti a decidere e a scambiarsi le nomine fra di loro, ma nel conto devono entrare, come minimo, anche i Liberali e i Verdi.

I conti complicati nel Consiglio europeo
La situazione è altrettanto complicata all’interno del Consiglio dove è necessario raggiungere una maggioranza qualificata rinforzata per indicare il candidato presidente della Commissione: un minimo di 21 stati membri su 28, che inoltre rappresentino almeno il 65% dell’intera popolazione dell’Unione. Nel Vertice attuale 9 paesi sono guidati da forze che si richiamano ai Popolari e 8 ai Liberali (solo 5 ai Socialisti).

Entrambe le coalizioni hanno quindi la forza di costituire una minoranza di blocco su candidature non gradite. Paradossalmente, anche i 5 paesi che hanno governi non rappresentati nelle tradizionali famiglie partitiche europee (Gran Bretagna, Grecia, Ungheria, Polonia e, per la prima volta, perfino l’Italia) avrebbero teoricamente la possibilità, mettendosi assieme, di bloccare nominativi indigeribili per loro.

Difficile quindi credere che da qui a domenica 30 giugno, data di un nuovo Vertice straordinario, questa situazione di oggettivo blocco possa essere risolta, anche se nel frattempo i maggiori paesi dell’Ue assieme a Donald Tusk e a Juncker, avranno modo di rivedersi ad Osaka in Giappone per la riunione del G20.

Come al solito, saranno proprio le riunioni informali e riservate a permettere di trovare, o almeno di avviare, una bozza di soluzione dell’intera questione, che come noto non si limita alla figura del presidente della Commissione, ma si allarga alle altre cariche di vertice, dal presidente del Consiglio europeo a quello del Parlamento, dall’Alto rappresentante al presidente della Bce.

La corsa dei leader per evitare un conflitto con il Parlamento
L’unico vero motivo per agire rapidamente sarebbe quello di evitare di aprire fin dall’inizio della legislatura un fronte di conflitto istituzionale con il Parlamento europeo, che si insedierà ufficialmente il 2 luglio: arrivare quindi a scegliere il nome per la presidenza della Commissione prima di quella data, toglierebbe di torno il rischio di risollevare la questione dello spitzekandidat che, come abbiamo visto, divide per il momento anche le famiglie partitiche della nuova Assemblea.

Si potrebbe quindi approfittare di questo momento di debolezza del Parlamento, cosa che permetterebbe al Consiglio europeo di scegliere un proprio candidato, possibilmente di alto profilo, da sottoporre successivamente al voto di conferma dell’Assemblea.

Insomma una vera e propria partita a scacchi che sottolinea, se ancora ce ne fosse bisogno, lo stato di disagio che sta vivendo in questo momento l’Unione europea. Un’Unione che ha perso in questi anni due ancore di stabilità: la maggioranza parlamentare di popolari e socialisti all’interno del Parlamento europeo e la forza trascinante dell’asse Francia-Germania, ormai divise su diverse materie o almeno non in grado di portare avanti una linea di approfondimento dell’Ue.

Da diverse parti si invoca quindi un colpo di teatro, con una Angela Merkel che, malgrado la conclamata riluttanza, accetti di guidare il Vertice europeo e sblocchi così le altre caselle: un francese a capo della Bce o della Commissione e le altre cariche apicali da dividere fra pretendenti dell’Est e del Sud. Insomma la nascita di un dream team, che assomiglia tuttavia più a un vero e proprio sogno che alla dura realtà di una partita destinata probabilmente a trascinarsi ancora per lungo nel tempo.