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Dopo le elezioni europee

Ue/Gb: Farage, la fine del bipolarismo e l’incognita Brexit

4 Giu 2019 - Beatrice Vecchiarelli - Beatrice Vecchiarelli

A volte ritornano e, quando accade, alcuni lo fanno per vincere. Senza colpi di scena e con grande soddisfazione dei sondaggisti che l’avevano predetto, quella vecchia volpe di Nigel Farage ha colpito ancora. Il suo Brexit Party ha trionfato alle elezioni europee nel Regno Unito sfiorando il 32% dei voti, davanti ai liberal-democratici, seguiti dal Labour Party (14,1%) e dai Verdi. A eclissarsi, invece, insieme alla dimissionaria Theresa May, sono stati i conservatori, quinti nelle preferenze degli elettori con meno del 9%.

Questi dati, al di là della distribuzione dei seggi europei, rivelano un Paese che ha perso i suoi tradizionali punti di riferimento politico e non sa fare altro che mettersi nelle mani di un uomo, più che di un partito, capace di portare a termine ciò che ha promesso. Il ritorno di Farage, mai del tutto scomparso dalla scena, e la vittoria del giovane Brexit Party non lasciano perciò alcun dubbio sulla direzione che la Gran Bretagna intende prendere per quanto riguarda i negoziati per l’uscita dall’Unione europea. Ma non è semplice come sembra.

Il trionfo del Brexit Party
Al centro della campagna elettorale britannica per l’ultima elezione dei propri rappresentanti al Parlamento di Strasburgo non poteva che trovarsi la Brexit. Quell’imbrogliatissima matassa che appena qualche giorno fa ha visto capitolare il primo ministro Theresa May, in lacrime davanti a una schiera di giornalisti, per non essere riuscita a traghettare il Paese fuori dall’Unione le è ancora toccata la corvée di ricevere il presidente Usa Donald Trump in visita di Stato su invito della Regina Elisabetta -. E vuoi allora per l’incapacità dimostrata dal governo conservatore, vuoi per la condotta ambigua avuta in questi tre anni di trattative dal leader laburista Jeremy Corbyn, tra i due litiganti a godere è stato proprio il partito che ha fatto del divorzio dall’Ue la sua unica ragione di esistere.

Niente questioni economiche, né tantomeno legate all’immigrazione. L’unico punto del suo programma riguarda la separazione da Bruxelles. Netta, hard e ben venga anche senza accordo. Il partito ha chiesto infatti di poter prender parte al tavolo dei negoziati e Farage, il suo leader, col solito sorriso beffardo, ha messo subito le cose in chiaro: se la Brexit non dovesse attuarsi entro la nuova scadenza autunnale, la percentuale dei consensi ottenuta dal suo partito si ripeterà alle elezioni generali. Niente più proroghe insomma, e non si dica che non li aveva avvisati.

La crisi dei partiti tradizionali
Già nel 2014, Farage si era ritrovato alla guida del primo partito del Regno e la fiducia riconfermatagli oggi dalla nazione sembra assumere i caratteri della protesta contro i partiti storici, incapaci di dialogare coi cittadini, i quali – verosimilmente – dopo il referendum del 2016 non si aspettavano di dovere tornare alle urne per il voto europeo. Per questo motivo, la vittoria del Brexit Party non può essere ignorata e anzi punta i riflettori sul declino del secolare bipolarismo britannico che va forse rimodellandosi verso un nuovo dualismo: quello tra gli agguerriti euroscettici e i timidi sostenitori dell’Ue.

Di fatto, il suo trionfo avrà un impatto rilevante sulla scelta del nuovo inquilino al n° 10 di Downing Street, nonché leader dei tories, che dal 7 giugno – appunto dopo la visita di Trump a Londra – assumerà il timone del governo. Negli ultimi giorni si è fatto sempre più insistente il nome di Boris Johnson, brexiteer irriducibile e molto divisivo nel partito conservatore. Eppure la storia insegna che chi viene dato per vincente non trionfa quasi mai e anche il fronte favorevole a una soft Brexit ha dei validi candidati su cui puntare.

Ascesa dei Liberal-democratici e dei Verdi
Se il Brexit Party è riuscito a intercettare il malcontento dell’elettorato tory, il partito liberal-democratico di Vincent Cable ha succhiato voti preziosi ai laburisti, ottenendo un più che dignitoso 18,5%. Rimasto infatti l’unico partito apertamente europeista, favorevole a un secondo referendum, fedele a una chiara linea progressista, non ha fatto altro che giovarsi della politica ondivaga dei corbyniani.

Complice della salita del Green Party è stato il rinnovato vento ambientalista che da alcuni mesi è tornato a smuovere le coscienze in molti Paesi europei, tra cui Francia e Germania. Ed è qui che entra in gioco la matematica, non solo per quanto riguarda la composizione della maggioranza europea, fatta di incastri e compromessi, ma soprattutto per la partita britannica per la Brexit. Sommando infatti i voti dei principali partiti eletti, il fronte pro-Remain sembrerebbe maggioritario.

Fisionomia del parterre britannico a Strasburgo
Dei 73 eurodeputati che spettano al Regno Unito, di cui tre all’Ulster, Farage se ne è accaparrati ben 29, cinque in più rispetto al 2014 con lo Ukip. Ai tories sono andati appena quattro seggi, i laburisti hanno dimezzato la loro presenza con 10 seggi, i Verdi ne hanno conquistati sette e 16 i liberal-democratici. Per quanto riguarda il Nord Irlanda, per la prima volta nella storia saranno tre donne a rappresentare il Paese: Naomi Lang (Alliance Party), Diane Dodds (Democratic Unionist Party) e Martina Anderson (Sinn Féin). Un seggio va al gallese Plaid Cymru e tre al Partito Nazionale Scozzese.

Considerando i due paletti temporali del 2 luglio, giorno stabilito per l’insediamento ufficiale del nuovo Parlamento europeo, e del 31 ottobre, data di scadenza della Brexit, quello dei deputati britannici a Strasburgo sarà un mini-mandato di poco più di tre mesi. Se si tiene conto però della pausa estiva di Westminster, dei tempi tecnici per la formazione del nuovo governo, della stesura e la ratifica dell’accordo di uscita, sembra difficile per Londra riuscire a rispettare certi termini, dilatando inevitabilmente la permanenza dei suoi parlamentari in Europa.

Una volta portata a termine la Brexit i seggi britannici verranno ridistribuiti proporzionalmente: 46 saranno rimossi, facendo scendere (per ora) il numero complessivo degli eurodeputati da 751 a 705, e 27 spartiti tra i vari Paesi membri.