Società: lo spettro dell’attivismo nell’Europa del XXI Secolo
Uno spettro s’aggira per l’Europa: non è il comunismo, ma l’attivismo. Il XXI potrebbe rivelarsi il secolo dei flash mob: cittadini organizzati che si mobilitano per dettare l’agenda politica, costringere i governanti a risolvere i problemi della società condizionandone le scelte. Sulla cittadinanza attiva, scommettono sia il sociologo ed economista tedesco Wolfgang Streeck sia Rupert Younger, direttore del Centre for Corporate Reputation dell’ Università di Oxford e autore, assieme a Frank Partnoy. di una riscrittura del Manifesto del Partito comunista di Marx ed Engels, a 171 anni dalla sua pubblicazione.
La speranza può arrivare dalla società civile
Entrambi a Torino in occasione di Biennale Democrazia, evento di punta con Gustavo Zagrebelsky presidente capace di portare a Torino l’intellighenzia più accreditata, attraverso analisi differenti sono giunti a conclusioni molto simili: la speranza può arrivare dalla società civile. Nel riesumare lo spettro di marxiana memoria per vestirlo di altri panni, Younger li ha chiamati “attivisti”.
Non appartengono alla classe operaia e neppure sono proletari, ma sono le tante Greta Thunberg e Malala Yousafzai che si mobilitano per la difesa dell’ambiente come per la difesa e promozione dei diritti umani. Sono le primavere arabe e i contestatori di Wall Street, ma anche i gilet gialli. Il sistema economico-sociale fonte di sempre più esasperate diseguaglianze, può essere modificato non dai partiti né dai governi e neppure dall’ Europa istituzionalmente intesa, ma attraverso azioni dal basso, diffuse, continue, consapevoli, mirate sugli obiettivi.
L’attualità del Manifesto e l’eccezione della proprietà privata
Obiettivi che, tutto sommato, non sono tanto diversi da quelli del 1848 se è vero che “nel riscriverlo sono state cambiate – ha osservato Younger, chiarendo di non essere affatto marxista – soltanto il 26% delle parole del Manifesto, le altre sono pertinenti allora come oggi”. Uno dei punti eliminati è, però, il cuore del marxismo: l’abolizione della proprietà privata.
“In questi tempi – sostiene Younger – anche Marx ed Engels sarebbero d’accordo con noi. La proprietà privata è più diffusa, la protezione del proprio bene, pensiamo alla casa, riguarda un gran numero di persone. Il cuore delle richieste che vengono dalla società civile oggi è garantire standard di vita accettabili, il diritto al lavoro, all’istruzione e alla sanità gratuiti, l’eliminazione della corruzione, l’accesso alle tecnologie e alla finanza che sia d’aiuto allo sviluppo”.
Younger, partire dal ‘locale’
Younger la definisce “ rivoluzione tranquilla che costringe le élite a rispondere alle grandi questioni sociali” poste dalla società civile e – secondo lui – per realizzare questo programma il “locale” è il primo terreno su cui muoversi perché è il livello “dove la voce delle persone è più rappresentata. Il localismo – afferma Younger – riduce il potere delle élite che tendono a creare grandi gruppi, grandi organizzazioni internazionali tra loro concorrenti che non vogliono condividere i finanziamenti e le mission”.
Younger crede nella “capacità delle masse di organizzarsi attorno a un’idea. Il potere della tecnologia di creare collegamenti è straordinaria. Le condizioni ci sono per trovare terreni comuni”. L’obiezione, indirettamente, è venuta da Wolfgang Streeck. E’ possibile che grandi o piccole azioni locali possano davvero innescare un cambiamento a fondo del sistema imperante?
Streeck, la resilienza del capitalismo
Direttore emerito a Colonia dell’ Istituto Max Planck sullo studio delle società, da anni è uno dei più accreditati analisti del capitalismo e nella sua lectio all’Università non ha fatto ricorso a Marx ed Engels, ma ad Antonio Gramsci: “La crisi consiste nel fatto che il vecchio ordine muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”.
Secondo Streeck, “non c’è opposizione mondiale anticapitalista”. Ci sono movimenti, come quello ambientalista, ma “non sono coordinati. Il capitalismo lo è”. Un sistema duro a morire anche perché “ormai -ha osservato – non è solo più una modalità economica, ma un modus vivendi”. Nella sua storia è entrato periodicamente in crisi, ma è stato capace di riemergere trasformandosi.
La promessa mancata una malattia terminale?
Tuttavia dal 2008 è entrato in una fase che potrebbe essergli fatale, quella neo-liberale, del capitalismo finanziario sganciato dal lavoro, della fine delle economie nazionali e l’inizio del mercato globale con la sua promessa mancata di maggior benessere per tutti. “L’ Unione europea – sostiene Streeck – è una struttura creata così com’è dal neoliberalismo che è congelato. Ha imposto l’austerity, il taglio dei debiti, ma non ha affrontato i problemi. L’ Europa si è cristallizzata”.
Imprimerle una nuova marcia è possibile se i cittadini non si lasceranno abbagliare dai “fenomeni morbosi” di gramsciana memoria, dove la rabbia trova sfogo sugli emarginati, la paura fa muro a ogni alternativa. Se Younger divide il mondo tra “have” e “have not” dove gli “have not” sono gli esclusi dal potere prima ancora che dalla ricchezza e incita “attivisti del mondo unitevi”, Streeck teme che le “improvvisazioni “ locali non bastino a creare un nuovo equilibrio nella società.
Fallito il neo capitalismo (“L’indebitamento è aumentato ovunque – dice Streeck – e dunque l’incremento del debito non riguarda soltanto l’Italia, ma è fenomeno globale”), aumentate le diseguaglianze, “ecco che gli Stati che reggono sul consenso perdono credibilità. Ci troviamo in una fase del capitalismo con un mix di paura di perdere tutto quello che abbiamo conquistato e avidità di una sempre maggiore soddisfazione dei nostri bisogni consumistici. Questo sta accadendo nell’ Occidente”.
Lo spettro cinese la vera incognita
E le stesse persone – aggiunge Streeck – che hanno paura di perdere il lavoro, se lo hanno, o la casa o la pensione, nello stesso tempo “devono essere fiduciosi come consumatori”. Una schizofrenia del sistema che si riflette nella psicologia di massa. In questa epoca di “disintegrazione”, di crollo di qualsiasi certezza, “non c’è opposizione mondiale anticapitalista”.
Non c’è opposizione attraverso una filosofia-ideologia sistematica, ma c’è quella che l’ economista Jeffrey Sachs della Columbia University e grande critico di Donald Trumps, chiama “diversity”, nuovi modelli che si fanno largo nella finanza come nell’economia di mercato basati su cooperazione e condivisione. Sachs ammira la socialdemocrazia dei paesi Scandinavi, con i loro welfare e i loro servizi pubblici, sostenibili con fior di tasse pagate da cittadini felici. Ma, intanto, s’aggira uno spettro – su questo tutti concordano – quello cinese. E su questo nessuno s’azzarda a fare previsioni.