Kosovo: sussulto di tensioni con Serbia in chiave Ue e Nato
A vent’anni dalla fine della guerra contro Slobodan Milosevic, il Kosovo continua ad essere teatro di tensioni con la Repubblica di Serbia che non ne ha ancora riconosciuto l’indipendenza. Dal 2008, infatti, nonostante i tavoli di dialogo fra Pristina e Belgrado (con la benedizione di Ue e Nato), mai c’è stata intenzione da parte serba di accettare che l’ex provincia sia diventata uno Stato indipendente e sovrano.
Prodromi dei sussulti di tensione
L’ultimo mese del 2018 ha scosso gli equilibri dei Balcani meridionali: caldeggiata dal presidente della Repubblica Hashim Thaci e dal premier Ramush Haradinaj arriva da Pristina la decisione di fare della Kosovo Security Force (reparto di sicurezza interna costituito nel 2009 e addestrato dall’Alleanza Atlantica) una moderna forza militare di 5000 effettivi e 3000 ausiliari. A metà dicembre la questione arriva sui banchi del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, preoccupato per una decisione che comprometterebbe il già fragile rapporto con la vicina Serbia. Neanche la Nato è convinta: vent’anni di presenza sul campo hanno palesato ai membri la fluidità dei rapporti tra Pristina e Belgrado; pertanto il segretario generale Jens Stoltenberg esprime apertamente il suo scetticismo sull’opportunità di una ‘Kosova Army’.
Come da timori, dura la reazione del presidente serbo Aleksandr Vucic che percepisce come provocazioni sia il progetto di un esercito kosovaro sia la decisione di Pristina di aumentare i dazi sulle merci importate da Serbia e Bosnia.
Tensioni che non si stemperano. A febbraio 2019 è una proposta di Belgrado a suscitare malumori fra i kosovari: tracciare un nuovo confine, così da inglobare le città kosovare a maggioranza serba. Proposta che fa infuriare Haradinaj, che replica con un suo piano: mantenere inalterati i confini, consentire l’ammissione del Kosovo agli organismi internazionali (Onu e Osce), istituire un tribunale per punire i responsabili serbi dei crimini di guerra nel 1999. La risposta di Vucic è secca: “Non lo accetterò mai”. Il premier Ana Brnabic definisce il progetto “contro ogni compromesso e dialogo”.
Minoranze ed economia
Lo scontro sul confine affonda le radici nel conflitto del 1999. E le preoccupazioni di Belgrado per la sorte delle minoranze serbe sono note sin dall’inizio degli Anni Duemila, quando rivolte e manifestazioni anti-serbe hanno portato alla distruzione di parte del patrimonio culturale serbo-ortodosso.
Sui monti Topaoni, in gioco non c’è solo l’identità di due popoli, ma anche il loro futuro. In località di Trepca, infatti, a una manciata di chilometri di Mitrovica, vi è un grande complesso industriale per l’estrazione della bauxite, minerale da cui si ricava l’alluminio. Un tempo fiore all’occhiello dell’industria jugoslava, dal 1999 è un’area contesa fra la Serbia e l’ex provincia. La ridefinizione dei confini ha quindi provocato una perdita economica per Belgrado, che già nell’ottobre 2016 aveva duramente contestato la scelta del Parlamento kosovaro di nazionalizzare il vecchio impianto estrattivo, allarmato anche dalle parole dell’allora premier Isa Mustafa che ha rivendicato il sito di Trepca quale “proprietà del Kosovo”.
Se per Vucic l’alluminio è una risorsa per ampliare il mercato della Serbia e aumentarne le capacità produttive, per Pristina è un’ancora di salvezza. Come ai tempi di Tito e di Milosevic, infatti, le disparità economiche e di sviluppo fra i due Paesi sono ancora molto forti: nel 2017, ad esempio, il tasso di disoccupazione del Kosovo era del 30% contro il 14% della Serbia.
La dimensione regionale
Nel delicato gioco diplomatico che si disputa fra Pristina e Belgrado c’è anche un altro elemento che va tenuto in considerazione, quello del ruolo dei dueSstati nella Penisola balcanica. Alleato strategico di Mosca nei Balcani ma anche candidato ufficiale all’adesione all’Ue, la Repubblica di Serbia è ostacolata nel suo progetto di avvicinamento all’Unione europea dal mancato riconoscimento del Kosovo.
Quest’ultimo invece è in cerca di una credibilità internazionale, percependo la presenza della missione internazionale sul suo territorio come un’ interferenza. Ciò motiverebbe la decisione di fondare un proprio esercito, l’aumento dei dazi e, nell’ultima settimana, le perquisizioni e gli arresti condotti a Mitrovica: scelte decisamente impopolari, ma, agli occhi di Haradinaj e del suo governo, necessarie a dimostrare al vicino e agli alleati occidentali che Pristina è capace di prendere decisioni in autonomia e di assumersene la responsabilità.
Invero, i compiti della Kfor si limitano alla formazione del personale per la sicurezza interna e al contributo a garantire stabilità nell’area, senza influire di fatto sulla vita politica del Kosovo. E, interpretazioni a parte, un suo completo ritiro sarebbe un grave danno per la repubblica kosovara, ancora economicamente debole e politicamente poco incisiva per privarsi dell’importante sostegno dell’Alleanza.
I fatti di Mitrovica non vanno dunque letti come estemporanea crisi fra due Paesi, né come potenziale pericolo di escalation militare. Belgrado ha sì mobilitato l’esercito ma, con ogni probabilità, quei soldati non oltrepasseranno il confine. La voce grossa di Vucic, infatti, fa parte del gioco della politica: presentare l’avversario come pericoloso per la pace e dare di sé l’immagine di leader responsabile alla guida di una nazione stabile. Anche le critiche lanciate venerdì all’Unione europea vanno in questa direzione: fornire l’immagine di una Serbia determinata a dialogare, ma che si sente isolata dalla comunità internazionale e lasciata in balìa di un vicino che fa scelte avventate.
Quindi solo abile retorica e niente scontri. Belgrado, in fondo, avrebbe molto da perdere: l’eventuale adesione all’Ue significherebbe ottenere investimenti e garantire alle proprie aziende l’apertura a nuovi mercati, opportunità importanti che un intervento armato vanificherebbe. La vera guerra, semmai ci sarà, verrà combattuta in seguito e sul piano finanziario tra uno stato membro dell’Unione e la sua ex provincia, dipendente dalle importazioni e dai rifornimenti esteri e con minore credibilità diplomatica e geopolitica.