IAI
La conferenza 'Peace for Prosperity'

MO: Manama, il declassamento della questione palestinese

28 Giu 2019 - Francesco Bellini - Francesco Bellini

Il “Peace to prosperity” workshop tenutosi a Manama in Bahrein tra martedì e mercoledì non verrà ricordato nei libri di storia. Non solo per l’anonimo nome con cui si presentava, ma soprattutto perché non porterà a una pace definitiva tra israeliani e palestinesi. Ciò non vuol dire che la sua importanza debba essere sottovalutata. Infatti, pur non facendo sostanziali passi avanti verso la soluzione finale del conflitto, si è verificato un più modesto cambio di approccio nel perseguimento della stessa, per lo meno da parte americana.

Chi c’era all’evento
Nessuna storica stretta di mano. Né tantomeno credibili candidati al Nobel per la pace. L’immagine più rappresentativa della due giorni di lavoro giunge dal ricevimento d’apertura al Four Season Hotel di Manama. Tra i tavoli e le poltrone della sala si è assistito a intensi colloqui tra uomini d’affari provenienti dal mondo arabo e le loro controparti israeliane. Nonostante l’assenza di delegazioni ufficiali, alla fine molti uomini provenienti dal settore privato israeliano e palestinese si sono presentati all’evento. Dimostrando che la questione palestinese può essere trattata a un livello tecnico, senza dover toccare i principali tasti dolenti (su tutti lo status di Gerusalemme).

Tra i presenti si contano circa quindici palestinesi, guidati dalla controversa figura di Ashraf Jabari, businessman di Hebron e unico speaker palestinese ufficialmente in scaletta. Tra gli altri, per gli israeliani c’era il generale di riserva Yoav Mordechai, ex coordinatore delle attività di governo nei territori giunto a Manama come semplice uomo d’affari. Ma anche Aric Tal, responsabile Nokia dell’area mediterranea, attivo nello sviluppo della rete 3G nei territori palestinesi.

Folta si è rivelata anche la presenza di giornalisti israeliani accorsi per coprire l’evento. Nonostante l’assenza di relazioni diplomatiche ufficiali con Israele, Manama ha permesso a sei testate giornalistiche israeliane di mandare propri inviati. Un evento eccezionale sottolineato dalla sorpresa con cui i giornalisti venivano ricevuti ai controlli di sicurezza dell’Aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, nel momento in cui dichiaravano la destinazione finale del proprio viaggio con scalo ad Amman. Il Bahrein, a riconferma del ruolo di backchannel giocato nell’interlocuzione tra Israele e Paesi arabi, è stato rappresentato nel corso dei lavori da Houda Nonoo, diplomatica ebrea già ambasciatrice a Washington dal 2008 al 2013. Infine, nonostante le iniziali smentite, si è registrata la presenza con un basso profilo di rappresentanti russi e cinesi, così come della rappresentante speciale dell’Ue per il Medio Oriente, Susanna Terstal.

Un approccio economico alla questione palestinese
È interessante notare il cambio di nome in corsa che ha subito l’evento. Dall’ambizioso appellativo di conferenza si è preferito virare sul più modesto workshop. Soprattutto per non irritare le già riottose delegazioni arabe, restie a partecipare a un evento dall’alta valenza politica. Tale mutamento in realtà suggerisce le reali intenzioni del presidente Trump, principale promotore dell’evento. Il suo approccio nei confronti della questione palestinese è ormai mutato rispetto alla tradizionale soluzione dei due Stati perseguita dai suoi predecessori. Gli Usa dimostrano di aver abbandonato il ruolo di mediatore tra le parti per sostenere le ragioni di Tel Aviv. Di conseguenza non lavorano più per dare alla luce uno Stato palestinese ma per disinnescare la voglia di sovranità di quella stessa popolazione attraverso incentivi di tipo economico.

Per tale motivo, la presentazione della parte economica del ‘deal of the century’ non si spiega unicamente per ragioni d’opportunità. La precedenza che ha avuto rispetto alla parte politica e securitaria del piano è sintomo di un’inversione delle priorità per Washington. Interessata sì a ridurre la conflittualità regionale, ma non intaccando lo status quo tanto caro a Israele. Non a caso la delegazione americana era guidata dal segretario al Tesoro Steven Mnuchin, a sottolineare il declassamento della questione palestinese da affare politico-strategico a questione economica, tecnica e procedurale.

Jared Kushner, consigliere speciale e genero di Trump, ha aperto i lavori presentando il piano già consultabile dalla serata di domenica sul sito della Casa Bianca. Il progetto prevede un investimento complessivo di 50 miliardi di dollari in dieci anni, da riversare su Cisgiordania, Gaza e Paesi limitrofi (Egitto, Giordania, Libano). L’inserimento di questi tre Stati sottolinea forse la volontà di considerare i territori palestinesi come un terreno divisibile tra di essi e non un’entità statuale potenzialmente indipendente. Non è chiaro chi saranno i veri finanziatori del piano. Infatti ciascun investimento presentato riporta un’anonima dicitura ‘grant funding’ o ‘concessional financing’.

Economy, people, government: i tre pilastri
Gli investimenti sono ripartiti in tre grandi settori tematici. In primo luogo si considera l’economia palestinese. L’obiettivo è quello di integrarla maggiormente rispetto al mercato regionale, attraverso un piano di investimento infrastrutturale. Tra le misure più ambiziose c’è il progetto del corridoio palestinese tra Gaza e la Cisgiordania, da collegare tramite un’autostrada e in futuro attraverso una linea ferroviaria. Si vogliono ridurre le barriere e i controlli al confine anche attraverso la costruzione di punti di ingresso alternativi, come un nuovo porto a Gaza. Sempre nella Striscia si aspira a raddoppiare la fornitura di acqua corrente e a estendere a 16 ore giornaliere la disponibilità di elettricità. Inoltre si calcola la possibilità di creare un milione di posti di lavoro attraverso l’espansione del settore privato. L’export dovrebbe incidere sino al 40 % sul Pil palestinese, a fronte dell’attuale 17 %, mentre gli investimenti diretti esteri dovrebbero aumentare dal 1,4 all’8 %.

La seconda area tematica è dedicata alla popolazione. Si prevedono investimenti nel sistema educativo. L’obiettivo è di aprire una nuova università (su cui investire 500 milioni) e aumentare le borse di studio internazionali, oltre che modernizzare i centri educativi già esistenti. Da notare come venga più volte fatto  riferimento al modello educativo occidentale dove la scienza, la tecnologia e l’innovazione risultano prioritarie. Molta attenzione viene dedicata alla disoccupazione giovanile e alla condizione delle donne, le cui percentuali di impiego sono nettamente inferiori rispetto agli uomini (si vuole passare dal 20 al 35 % di occupazione femminile). Inoltre si parla di una conversione del sistema sanitario verso un modello preventive-oriented in grado di agire efficacemente ma limitando i costi, ad esempio nel dimezzamento della morte infantile. In generale poi si parla di qualità della vita, il cui miglioramento passa per l’apertura di centri sportivi, artistici, culturali e un aumento dei servizi municipali, potenzialmente sfruttabili anche da nuovi flussi turistici. L’obiettivo è quello di innalzare l’aspettativa di vita dai 74 anni attuali a 80.

Infine si dedica un paragrafo al settore pubblico. Non è un caso che venga lasciato per ultimo, quasi a sottolineare l’importanza maggioritaria che nel nuovo approccio ricopre il settore privato, a fronte di un apparato pubblico sinonimo di corruzione e inefficienza. È evidente il tentativo di delegittimare lo schema istituzionale fuoriuscito dagli Accordi di Oslo, e in particolare limitare il ruolo giocato dall’Autorità nazionale palestinese bypassandolo, e creando un collegamento diretto con la società civile. L’obiettivo in questo settore è produrre terreno fertile per gli investimenti, favorendo la creazione di un business environment migliore. Attraverso interventi nel sistema normativo, nell’indipendenza del settore giudiziario e tramite la creazione di un meccanismo di e-governance (si prende come riferimento l’ambizioso modello estone). Le parole d’ordine sono trasparenza e accountability nelle linee di finanziamento che verranno aperte e da cui si vuole estromettere l’Anp, così come gli altri attori politici del variegato fronte palestinese.