Kazakhstan: scontri di piazza per le elezioni post-Nazarbayev
Nessuna sorpresa dal Kazakhstan. Kassym-Jomart Tokayev, presidente ad interim dopo le inaspettate dimissioni di Nursultan Nazarbayev lo scorso marzo, è stato confermato alla guida del Paese centro-asiatico con il 70,76% dei voti dal voto di domenica 9 giugno. Un risultato che non è piaciuto a molti kazaki, scesi in piazza a protestare nelle città principali del Paese. La risposta del regime non si è fatta attendere: circa 500 manifestanti sono stati arrestati dalla polizia.
Un tentativo (fallito) di guadagnare legittimità
È evidente come, nonostante le dimissioni di Nazarbayev – al potere da trent’anni e unico presidente mai conosciuto da Kazakhstan indipendente -, il governo kazako non avesse nessun interesse a democratizzare il Paese. Le elezioni sono state semplicemente una messinscena per legittimare la presidenza Tokayev sia davanti ai cittadini che alla comunità internazionale. Anche la percentuale ottenuta da Tokayev ne è un esempio: il 70,76% è ben più modesto del 97,7% ottenuto da Nazarbayev nel 2016.
Tuttavia, insieme all’irrilevanza dei candidati dell’opposizione, getta ombre sul tentativo di guadagnare credibilità internazionale. Credibilità minacciata ancora di più dai video in cui si vede una singola persona votare con cinque o sei schede elettorali, ma soprattutto da quelli in cui la polizia trascina via con la forza coloro che erano scesi in piazza a manifestare pacificamente.
Se l’Occidente ha spesso chiuso un occhio sull’autoritarismo di Nazarbayev, anche grazie alle prospettive economiche offerte dalla Nuova Via della Seta cinese che attraversa l’Asia centrale, le scene del 9 giugno sono difficili da ignorare e rischiano di minare la reputazione internazionale faticosamente costruita dal primo presidente kazako.
La maggior parte dei manifestanti era ad Almaty, capitale economica del Paese, e ad Astana, di recente ribattezzata Nur-Sultan in onore di Nazarbayev, ma si sono tenute proteste anche in altre città, tra cui Shymkent e Aktobe. Ad Almaty, non appena giunti ad Astana Square, il luogo previsto per la protesta, i manifestanti hanno trovato ad attenderli la polizia, che ne ha spinti a decine dentro autobus preparati appositamente per disperdere le contestazioni.
In seguito alle proteste, circa 500 persone sono state arrestate, tra cui diversi giornalisti: non solo kazaki, come i corrispondenti di Radio Azattyq Sanya Toiken e Petr Trotsenko, ma anche stranieri, come il giornalista britannico Chris Rickleton. Una repressione che non è bastata a fermare le proteste, con i manifestanti che sono scesi in piazza anche lunedì 10 giugno.
La stretta pre-voto sugli attivisti
Tokayev, nel commentare le proteste, ha cercato di presentarsi come una figura mediatrice e conciliante: ha dichiarato che le elezioni non dovrebbero diventare un “campo di battaglia” e in una conferenza stampa si è detto tollerante verso espressioni di dissenso e pronto al dialogo con l’opposizione. Dichiarazioni in netto contrasto con la decisione di inviare la polizia in assetto antisommossa per le strade della capitale.
La situazione per la società civile kazaka si era già fatta tesa nei giorni prima delle elezioni, in cui si sono stati registrati casi di perquisizioni nelle abitazioni di alcuni attivisti, interrogati poi dalla polizia, mentre altri si sono visti improvvisamente recapitare la chiamata per il servizio militare. Anche per i giornalisti non era andata molto meglio: dei reporter di Radio Free Europe, giunti nel Paese per seguire le elezioni, si sono visti negare l’accredito stampa all’ultimo minuto. E il giorno delle elezioni Internet è rimasto bloccato per diverse ore.
Prima l’economia, poi la democrazia
La strategia del governo Nazarbayev era sintetizzata dal motto “Prima l’economia, poi la politica”: lo sviluppo economico era considerato un prerequisito per quello democratico, che si sarebbe potuto realizzare soltanto in un secondo momento. Il risultato è un Paese con il Pil pro capite più alto dell’Asia Centrale, ma in fondo a tutte le classifiche per libertà di espressione e libere elezioni.
Molti analisti hanno a lungo sostenuto che i kazaki accettassero passivamente questa strategia, dando la priorità al benessere economico a scapito della propria libertà di espressione. In Kazakhstan ,una rivoluzione per rovesciare il governo – come quelle avvenute in Kyrgyzstan, il vicino più povero ma meno autoritario, nel 2005 e 2010 – è sempre sembrata impossibile. Eppure, giornalisti e attivisti non sono sorpresi dalle proteste di Almaty e Nur-Sultan: a loro dire, il discontento e la frustrazione verso il governo erano in crescita da anni.
In questo contesto, per molti kazaki le dimissioni di Nazarbayev rappresentavano la speranza, per quanto tenue, di poter muovere qualche passo verso un sistema democratico. Ma per ora, le scene del 9 giugno fanno pensare che il Paese stia viaggiando in senso opposto, verso un modello ancora più autoritario, e forse anche senza la stabilità di cui si vantava spesso il primo presidente. E se – come congetturato da molti – Tokayev prima o poi si dimetterà in favore di Dariga Nazarbayeva, presidente del Senato e primogenita di Nursultan, in Kazakhstan nascerà una vera e propria dinastia autocratica.
Foto di copertina © Holdorbekov Muhtor Turapovich/Xinhua via ZUMA Wire