Hong Kong: passo indietro del governo dopo le proteste
Non accenna a spegnersi l’eco delle proteste popolari, di ampiezza senza precedenti, che hanno spinto il governo di Hong Kong a mettere nel cassetto il contestatissimo progetto di legge sull’estradizione. Una sospensione temporanea dell’iter legislativo, ha promesso la Chief executive dell’ex colonia britannica Carrie Lam, dopo averne nei giorni precedenti seccamente escluso l’eventualità.
L’annuncio è stato accompagnato da professioni di scuse, ripetute e di intensità crescente, ma vane. Infatti, le scuse e il ritiro – pochi dubitano che la sospensione sia in realtà un’archiviazione definitiva – non sembrano in grado di placare una piazza imbaldanzita dal successo, che reclama adesso a gran voce la testa della Chief executive.
A difesa della specificità dell’ex colonia
L’epilogo della vicenda è al momento tutto da scrivere. Entusiasmi e passioni, specie collettivi, sono per loro natura passeggeri. Presto o tardi, l’onda lunga del movimento di massa è destinata a ritrarsi. Non senza conseguenze, però: e indipendentemente dagli strascichi che la vicenda produrrà per le persone coinvolte, è possibile ricavarne sin d’ora degli insegnamenti il cui significato forse si proietta anche al di là dei rapporti tra la Regione amministrativa speciale e la madrepatria.
Il primo insegnamento è, piuttosto, un monito, anche se incoraggiante: a non prendere sottogamba l’attaccamento della gente di Hong Kong alla propria identità. Tre manifestazioni oceaniche nell’arco di una settimana – l’ultima delle quali ha fatto scendere per le strade circa due milione di persone, ovvero quasi un terzo della popolazione complessiva dell’ex colonia – sono un messaggio a prova di equivoci della volontà di difendere ad ogni costo le prerogative di specialità racchiuse nella formula “Un Paese, due sistemi”. Una specificità fatta meno di tradizioni democratiche, di cui in verità gli stessi britannici erano stati avari (eccezion fatta per l’ultimo governatore, Chris Patten), che di deferenza quasi sacrale verso quei principi dello stato di diritto di cui l’indipendenza del potere giudiziario costituisce un caposaldo. E del resto, la certezza del diritto e la ragionevole aspettativa dell’imparzialità e della correttezza degli operatori della giustizia costituiscono ingredienti indispensabili per la vitalità e il buon funzionamento di un sistema economico a cui si tiene sia da una parte che dall’altra della linea di frontiera che ancora separa Hong Kong dalla Cina continentale.
La posizione della Cina
La seconda lezione, anch’essa di segno sostanzialmente positivo, è che l’amministrazione di Pechino è apparsa non solo sensibile all’esigenza di non intaccare le caratteristiche che sono alla base della riuscita dell’esperimento socio-economico in atto nell’ex colonia, ma anche determinata a fare quanto in suo potere per assicurare che quell’esperimento – un mix di istituzioni giuridiche anglosassoni, aspirazioni (costumi e consumi) libertarie occidentali, turbo-capitalismo con caratteristiche confuciane (ovvero cinesi) – prosegua senza turbative sostanziali. Lo dimostra la circostanza che l’idea di presentare il disegno di legge sull’estradizione non era stata suggerita da Pechino ma era il frutto di un’iniziativa esclusiva di Carrie Lam. E che, al contrario, sarebbero stati proprio i dirigenti di Pechino competenti a soprintendere agli affari di Hong Kong, a persuadere una Chief executive che le cronache descrivono riluttante a quell’inversione di rotta senza la quale i movimenti di protesta si sarebbero con ogni probabilità ulteriormente intensificati, con ripercussioni difficilmente calcolabili.
La terza lezione, meno rassicurante delle precedenti, è una conferma. La conferma dell’insipienza della classe dirigente di Hong Kong, alla quale è affidata l’autonomia di una gestione in cui Pechino, a meno che non veda in gioco propri interessi vitali, non vuole interferire. I predecessori della Lam avevano dato numerose dimostrazioni della propria inadeguatezza.
L’attuale Chief executive ha però superato di gran lunga i suoi predecessori, scoperchiando, con un’iniziativa tanto più improvvida in quanto presa a ridosso della ricorrenza del trentennale di piazza Tienanmen, il vaso di Pandora della separatezza del sistema giudiziario di Hong Kong dal resto della Cina, un tabù che tocca corde identitarie sentite come profonde dalla gente comune in egual misura che dalla comunità degli affari. Ed è una circostanza attenuante solo all’apparenza il fatto che a muovere la Lam fosse stato il caso umano di una famiglia di Taiwan, che invocava giustizia per un proprio caro ucciso per mano di un criminale di Hong Kong. Le migliori intenzioni non possono emendare la sventatezza di un provvedimento – quale quello sull’estradizione – che ha ridestato timori mai del tutto sopiti, a Hong Kong come altrove, soprattutto a Taiwan.
Nessuna battuta d’arresto per l’autonomia
Da questi timori la popolazione di Hong Kong ha saputo trarre il coraggio per una dimostrazione di forza probabilmente inedita, sicuramente inattesa. Una prova di forza tanto più strabiliante in quanto capace di produrre il risultato più incoraggiante di tutti: la progressiva erosione dello status di autonomia speciale di Hong Kong ha subito una repentina, almeno momentanea, ma innegabile battuta di arresto. Questa non può che essere una buona notizia per chi ha a cuore le sorti delle libertà civili, nell’ex colonia britannica e non solo.
Al tempo stesso, la resilienza di cui la società civile di Hong Kong ha dato prova pone una sfida delicata e complessa per la leadership cinese, ed in primo luogo per il Presidente Xi Jinping. Dalle risposte che Pechino vi saprà dare dipenderà in misura non piccola il futuro delle relazioni tra la Cina e Hong Kong, che la Dichiarazione congiunta sino-britannica del 1983 vuole improntate ad un “alto grado di autonomia” almeno sino al 2047, ovvero cinquant’anni dopo il ritorno alla sovranità cinese. Gli avvenimenti delle ultime settimane lasciano almeno sperare che il contenuto di tali risposte sia meno scontato di quanto fosse dato temere sino a non molto tempo fa.
Foto di copertina © Stephen Shaver/ZUMA Wire