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La mani di Pechino sull'organizzazione

Fao: guerra diplomatica per la guida dell’Agenzia romana

21 Giu 2019 - Laura Harth - Laura Harth

Il 23 giugno, gli Stati membri della Fao, l’Agenzia delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura con sede a Roma, nomineranno il successore all’attuale direttore generale José Graziano da Silva, che durante la 161° sessione del Consiglio dell’organizzazione, lo scorso aprile, si è potuto vantare del netto incremento in contributi che l’Agenzia riceve, portando il budget biennale per il 2018-2019 a 2,6 miliardi di dollari. Ad inizio marzo, erano cinque i candidati per la sua posizione: Davit Kirvalidze (Georgia), Qu Dongyu (Cina), Catherine Geslain-Lanéelle (Francia), Médi Moungui (Camerun) e Ramesh Chand (India).

Sia il candidato camerunense che l’indiano si sono nel frattempo ritirati, il primo con una lettera personale, il secondo tramite comunicazione del Governo indiano il 13 giugno scorso. Secondo una fonte diplomatica di Le Monde, il ritiro del candidato africano sarebbe avvenuto dopo il pagamento di un debito camerunense di 70 milioni di dollari da parte di Pechino. Ed è una notizia che ci porta immediatamente dentro quella che in teoria dovrebbe essere una elezione basata soprattutto su questioni tecniche e di visione per l’organizzazione, ma che invece è diventata una corsa diplomatica in cui in gioco sono tutt’altro che gli 800 milioni che soffrono la fame ogni giorno; un numero che secondo esperti non farà che aumentare significativamente nei prossimi dieci anni.

La Fao ha come compito quello di riunire tutte le nazioni del mondo per identificare pratiche e strumenti più adeguati per migliorare la produzione agricola, facilitare il commercio di beni alimentari, incrementare la sostenibilità, e aumentare la conoscenza in modo salute e benessere delle persone possano fare passi avanti.

La candidata europea cerca di piacere a Washington
Per gli Stati Uniti il candidato più indicato sarebbe il georgiano Kirvalidze: presentato come sostenitore del libero scambio e promotore di una riforma strutturale che deve affrontare i problemi di bilancio. Secondo fonti a lui vicine, Kirvalidze avrebbe “il sostegno di un gran numero di Paesi in via di sviluppo”. Inoltre, tradizionalmente, la guida dell’Agenzia va a un candidato di un Paese in via di sviluppo (l’uscente è un brasiliano naturalizzato italiano).

La candidata francese, Catherine Geslain-Lanéelle, già direttrice dell’Agenzia europea per la sicurezza alimentare (Efsa) di Parma e proposta in quanto candidata di tutta l’Unione anche dalla Commissione europea, potrebbe diventare la prima donna a capo della Fao. La campagna della Geslain-Lanéelle ha investito molto su Washington, chiedendo agli Stati Uniti di ritirare il sostegno al georgiano e impegnandosi a “non difendere necessariamente le posizioni europee sulla questione delle biotecnologie e degli Organismi geneticamente modificati (Ogm)”, come rivela una nota interna pubblicata dal Guardian. Interpellata da Le Monde, ha dichiarato: “Non l’ho mai nascosto: non desidero diventare direttore generale della Fao per difendere gli interessi di uno Stato o di un gruppo di Stati. Non è mia intenzione monopolizzare l’Agenzia per interessi particolari. Non credo esista una soluzione sola: ci sono molte soluzioni, e ciò che conta per me è che questa organizzazione sia il luogo di dibattito su queste diverse soluzioni, a partire da fatti e scienza, nel rispetto della salute e dell’ambiente. Non dobbiamo necessariamente rendere applicabile al resto del mondo ciò che è stato fatto in Europa. Abbiamo molti esempi di modelli virtuosi sviluppati localmente e che dobbiamo aiutare a passare a una scala più ampia.”

Parole che hanno creato stupore in alcune cancellerie del Vecchio continente, vissute come un disconoscimento dei più importanti orientamenti in materia di politiche agricole per Bruxelles, portando a delle divisioni all’interno dell’Unione europea stessa con l’incertezza del voto – segreto e in cui ogni Stato membro ha uguale peso – dei Paesi dell’Est, dell’Italia e del Regno Unito, i quali sarebbero riluttanti a sostenere la francese per paura di una politica di crescente industrializzazione del settore agroalimentare come sostenuto dagli Stati Uniti.

Le mire cinesi
Purtroppo, con la candidatura cinese di Qu Dongyu, attuale viceministro per l’Agricoltura e gli Affari rurali, il dibattito che dovrebbe mettere al centro la lotta contro l’insicurezza alimentare  “scivola chiaramente al secondo posto”, come si rammarica un alto funzionario occidentale su Le Monde. La candidatura di Qu avviene infatti nel mezzo di una guerra commerciale serrata tra Stati Uniti e Cina, e del tentativo sempre più evidente da parte di Pechino di diventare un potere egemone non solo in Asia ma anche nel continente africano per mezzo della Belt and Road Initiative, il mega-progetto infrastrutturale e di proiezione di influenza geopolitica del gigante asiatico.

Nella sua campagna, oltre al pagamento citato di un debito camerunense, Pechino avrebbe anche minacciato Paesi come il Brasile e l’Uruguay di porre un divieto sulle loro esportazioni agricole in caso di mancato voto a favore del candidato cinese. E mentre è comprensibile la frustrazione del sopracitato funzionario sulla deviazione del dibattito che dovrebbe stare al centro di questa elezione, non possiamo che notare che in realtà la candidatura cinese solleva un problema crescente e centrale a tutto il sistema Onu, un problema già sollevato dal rappresentante degli Stati Uniti Kip Tom in occasione dell’audizione dei candidati lo scorso aprile: “L’inchiesta del tuo stesso governo sull’ex presidente dell’Interpol Meng Hongwei – come te vice-ministro -, ha rivelato che uno dei motivi per cui è stato arrestato – e cito il tuo ministro della Pubblica sicurezza – è che non ha assolutamente alcun diritto di prendere decisioni senza permesso

Infatti, nonostante tutti i funzionari delle istituzioni internazionali siano tenuti ad un giuramento che vieta loro esplicitamente di seguire ordini da parte di Stati, partiti politici o qualsiasi terzo all’organizzazione, in una recente intervista con la tv cinese CCTV l’ex vice-segretario generale delle Nazioni Unite e già a capo del potentissimo dipartimento Onu per gli affari economici e sociali Wu Hongbo ha rivendicato: “La Carta delle Nazioni Unite ha delle regole chiare. A prescindere la tua nazionalità, non puoi accettare istruzioni dall’esterno dell’organizzazione e da altri paesi. Ciò detto, tutti i diplomatici hanno una nazionalità, questo significa che ti devi preoccupare dell’interesse del tuo Paese. […] Essere un diplomatico cinese vuol dire non essere negligente quando si tratta di proteggere l’interesse e la sicurezza nazionale della Cina. Dobbiamo difendere con forza gli interessi della madrepatria.”

La tela di Pechino nel sistema Onu
Nei fori internazionali, la Cina non nasconde più che esiste una unica strada: quella dell’obbedienza assoluta al Partito comunista, un diktat che vale non solo per i suoi cittadini e il suo apparato dei funzionari, ma anche per i governi di Stati amichevolmente sottomessi, come dimostrano le pressioni esercitati in vario modo su diversi Paesi.

E forse, dunque, è questa la questione che deve stare al centro del dibattito non solo per quanto riguarda la guida della Fao: il governo di Pechino è sempre più prepotente nelle sue azioni all’interno degli organismi internazionali e nei confronti di altri Paesi,  mettendo a serio rischio la tenuta stessa di queste organizzazione. Per cui, la sera del 23 giugno si potrebbe non solo vedere affidato alla Cina il controllo dell’organizzazione responsabile degli standard agricoli e alimentari, ma anche rafforzata la politica di Pechino che mina alla base i principi fondativi delle istituzioni multilaterali, avvicinandoci sempre più ad un mondo “cinesizzato”.

Foto di copertina © Xinhua via ZUMA Wire