Algeria: Meddi, i manifestanti chiedono dignità
«Il rischio è che, se il regime riuscirà a mettersi d’accordo rapidamente con una certa opposizione, questa rivoluzione può soffocare. Il movimento di protesta è emerso in un deserto politico, che è il prodotto di una repressione diretta o insidiosa nei confronti della vita politica, associativa, universitaria o mediatica, condotta dal regime di Bouteflika per vent’anni». Adlène Meddi, scrittore e giornalista algerino, è nato e vide a El-Harrach, una periferia di Algeri. Scrive regolarmente sull’Algeria per il sito Middle East Eye e il giornale francese Le Point. L’anno scorso ha pubblicato ‘1994’, un romanzo sul periodo nero dell’Algeria, quando, durante gli Anni Novanta, c’è stata una guerra civile atroce tra islamisti e militari che ha traumatizzato un intero Paese.
Dal 22 febbraio, migliaia di algerini sono in strada per manifestare. Chi sono?
Meddi – Sono la massa della popolazione che, secondo i pronostici degli esperti, sarebbero scesi in piazza solo in seguito a un prossimo crollo dell’economia, legato alla caduta dei prezzi del petrolio, alla cattiva governance, alla corruzione e alla fine dello Stato sociale. Invece, le decine di migliaia di persone che sono in strada non chiedono del pane, ma una migliore governance, un cambiamento politico. I problemi economici non sono ancora stati rivendicati, anche se presto lo saranno. Ciò che ha innescato le proteste è stata l’aberrante proposta di un quinto mandato da parte di un presidente malato e muto. Senza alcun tipo di romanticismo, ciò che ha mobilizzato gli algerini è stato un sentimento di dignità. Gli algerini, infatt,i chiedono di diventare delle persone normali, governate da un presidente in vita, che si tiene sulle sue gambe e che li rappresenti al minimo. L’idea è anche che ci sono interi settori della società non sono più rappresentati dal sistema politico ridotto a una piccola cerchia ristretta clientelare e auto-referenziale. Anche molti esponenti dell’élite algerina oggi si sentono estromessi dal questo sistema di rappresentanza, che è stato completamente preso in ostaggio dalla cerchia degli oligarchi.
In Algeria l’esercito ha sempre avuto un ruolo estremamente importante. Oggi che ruolo ha?
Meddi – Con la presidenza della repubblica vacante, i servizi segreti collegati allo Stato maggiore, alcuni oligarchi imprigionati, l’esercito rappresenta il quarto polo del potere. Vediamo quindi che è l’unico che resta in piedi. Paradossalmente, con il fatto che Bouteflika ha fatto di tutto per allontanare l’esercito dalla politica, l’istituzione dei militari è riuscita a rendersi autonoma da un sistema che, da anni, poteva crollare da un momento all’altro.
Oggi l’esercito gioca il difficile ruolo di arbitro tra le diverse opzioni che mirano della transizione desiderata. Il suo ruolo, secondo il suo capo, è quello di garantire che non ci siano grosse sbandate come quelle avvenute in Siria o in Libia. Insomma, di evitare il crollo totale. Al tempo stesso, il capo dell’esercito dovrà fare i conti con il passato, cosa più difficile, dal momento che non è altro che un’emanazione del sistema ventennale di Bouteflika. Che lo voglia o no.
Dopo quindici settimane di mobilitazione, il consiglio costituzionale algerino ha annunciato che era “impossibile” organizzare l’elezione presidenziale prevista per il 4 luglio, perché non c’erano i candidati. Quali sono quindi le prossime tappe?
Meddi – Lo scenario che propone l’esercito è di mantenere un presidente ad interim oltre i tempi previsti dalla Costituzione (che in questo caso sarebbe inizio luglio), al fine di organizzare una presidenziale prima della fine del 2019. Al tempo stesso, sarà aperto un dialogo con l’opposizione e i rappresentanti del movimento popolare e sarà creata un’istanza indipendente che sorveglierà e organizzerà le elezioni. Il primo ministro, nominato da Bouteflika poco prima di dimettersi, può essere anche destituito. L’obiettivo formale di tutto questo sarebbe quello di dare all’opposizione delle garanzie per partecipare alle prossime presidenziali.
Gaid Salah, capo dell’esercito, ha detto che è aperto al dialogo. Ma chi sono gli interlocutori dell’opposizione che possono presentare delle proposte concrete?
Meddi – Sappiamo che l’esercito è in contatto con membri dell’opposizione importanti, ma non abbiamo maggiori dettagli. Ci sono dei segnali di dialogo da tutte e due le parti. La società civile tenta di organizzarsi attraverso proprie iniziative, ma tutto ciò si reduce a un’élite politicizzata che ha un passato di lotte molto ideologiche.
C’è il rischio che questa rivoluzione resti senza rivoluzionari e che, conseguentemente, imploda
Meddi – Imploda? No, ma sul lungo periodo può soffocare se il regime riuscirà a mettersi d’accordo rapidamente con una certa opposizione. La preoccupazione dipende dal fatto che questo movimento è arrivato in un deserto politico dovuto alla repressione diretta o insidiosa nei confronti della vita politica, associativa, universitaria o mediatica, che il regime di Bouteflika ha adottato per vent’anni. È molto difficile ricostruire una vita pubblica in un contesto di tensioni politiche e di interessi mutevoli. Ma ciò che resta positivo è il fatto che gli algerini , dopo dieci anni di massacri della guerra civile e vent’anni del regno assurdo di Bouteflika, hanno di nuovo fiducia. La società ha scoperto di avere una forza che non sapeva nemmeno di avere e sa (a livello individuale e collettivo) che una vita pacifica per rovesciare o cambiare le cose è possibile, al di là degli esempi siriani e libici che in questi anni ci hanno traumatizzato. Iniziative economiche, ecologiche, universitarie, partigiane e sociali, che fino a poco fa erano clandestine, stanno emergendo. Questo sembra poco, ma in questa parte del mondo, per le nostre società tutto questo è grandioso.
La foto di Adlène Meddi che correda questa intervista è stata scattata da Francesco Gattoni