Ue/GB: Brexit, la paralisi all’avvicinarsi del baratro
E adesso? Una dopo l’altra, si vanno chiudendo le possibili vie di uscita, mentre un governo privo di idee e sballottato da una continua serie di sconfitte guarda paralizzato – al pari di una lepre colta di sorpresa dai fari di un’automobile – all’avvicinarsi di una hard Brexit disastrosa, rispetto a cui non sa cosa fare se non cercare di prendere tempo.
Continua a pagare il prezzo di un negoziato condotto senza una vera strategia, nato da una decisione cui chi l’aveva proposta non credeva, dove protesta indistinta, dilettantismo supponente, insularismo ignorante hanno dato vita ad una miscela esplosiva. Ha pesato l’incapacità di affrontare la situazione con strumenti innovativi, promuovendo la ricerca di un consenso trasversale capace di interpretare la nuova realtà, anziché rifugiarsi nell’ideologismo del confronto.
La tradizionale e spesso invidiata abilità negoziale britannica ha mostrato la corda: a Bruxelles persino nelle ultime settimane ci si è continuati a chiedere con stupore misto ad ironia come mai Londra continuasse a tenere una linea negoziale rigida sui dossier controversi per cercare di dividere il fronte avversario, tetragona al fatto che la musica era cambiata e che proprio tale approccio aveva finito per cementare fra i 27 una unanimità su cui all’inizio pochi avrebbero giurato, ulteriormente rafforzata dalla crescente insofferenza per un atteggiamento che, prima ancora che arroganza, mostrava una sorprendente fuga dal principio di realtà.
Un dibattito condizionato da tante ‘bufale’
Un dibattito viziato da un numero senza precedenti di fake news (sarebbe meglio chiamarle semplicemente ‘bufale’), in cui si agitavano seduzioni tardo-imperiali tanto sentite quanto slegate dalla realtà, divaricazioni fra metropoli e provincia, fra dinamiche culturali e professionali cosmopolite e desertificazioni industriali entrambe figlie della globalizzazione, fra giovani e anziani, non poteva far prevalere la razionalità, o anche solo la convenienza degli interessi.
Che il conto della Brexit sarebbe stato salato, anche se non necessariamente di quanto, era chiaro ma non ha smosso le certezze di coloro che pronosticavano un futuro fatto di deregulation selvagge sul modello Singapore in un Paese pronto, in nome del ritrovato ‘spirito bucaniere’, a partire alla conquista dei mercati mondiali. O quelle di coloro che invocando Dunquerque si dicevano pronti come settant’anni fa ad affrontare e vincere lo stesso avversario ‘continentale’ (cioè tedesco) che attentava alla loro identità.
Che un Paese fosse disposto a rinunciare all’insieme di garanzie e vantaggi che hanno fatto del modello sociale europeo un unicum senza precedenti potrebbe far trasecolare, ma il fatto che sia stato condiviso da fette consistenti di quel che resta della classe operaia, indifferente a che fabbriche e industrie si apprestassero a traslocare per timore della Brexit, dà da riflettere. L’effetto d’annuncio è per il momento modesto, sicché non cala di molto il numero di quanti pensano che i disastri minacciati siano in realtà una ulteriore ‘bufala’ e permane una sorta di fastidio per lungaggini che rischiano di vanificare la volontà popolare, cui è gran tempo di dare seguito.
La diversità strutturale britannica…
Il sistema britannico ha messo ancora una volta in luce la sua diversità strutturale rispetto al resto d’Europa. La britishness è un concetto elusivo, difficile da cogliere per chi non lo è; esso esprime l’essenza di una diversità profondamente radicata, di cui rappresenta il codice identitario; è ciò che consente a una società profondamente diseguale, in cui la classe conserva una forza sbiadita altrove, di riconoscersi e affrontare le proprie contraddizioni in quanto british.
E’ meno sentito a Londra e negli altri grandi centri urbani – Manchester, Birmingham, Glasgow –, dove multiculturalismo cosmopolita e globalizzazione hanno introdotto una trama sociale più articolata, ma per le stesse ragioni è fortemente radicato nel Sud e nell’Ovest agricolo e nella rust-belt nel Nord de-industrializzato, dove costituisce ad un tempo la coperta di Linus di un’identità in crisi e il grimaldello per affermare una diversità intollerante.
Sovranismo, se si vuole, ma di una qualità del tutto particolare e senza collegamenti possibili altrove. Inglese, assai prima che britannico, il che spiega da un lato come la Scozia possa immaginare concretamente un suo futuro con l’Europa e dall’altro come quanti sognano un’Inghilterra trasformata in una maxi-Singapore de-regolamentata, siano disposti a pagare il prezzo di una possibile dissoluzione del Regno Unito. Sarebbe la fine dell’illusione britannica di contare nel mondo, Scozia a Irlanda andrebbero per la loro strada lasciando a Londra forse solo l’appendice gallese; sarebbe uno scenario suicida ma c’è chi pensa che sarebbe coerente con una certa idea pur deformata di britishness.
… non sempre né interamente percepita dai partner
Tutto ciò, pur avendo condizionato sin dall’inizio la partecipazione britannica al processo europeo, non è mai stato interamente recepito dagli altri e ha continuato ad alimentare un divario di percezioni che si è manifestato con forza crescente nel negoziato sulla Brexit senza che, ancora una volta, si sia riusciti ad imbrigliarne il potenziale distruttivo.
Londra per converso, non è mai riuscita a cogliere compiutamente il senso innanzitutto politico che il processo europeo ha agli occhi di tutti gli altri suoi membri. L’Ue è in crisi e al suo interno si muovono non tendenze, velocità e geometrie diverse, ma universi autonomi e paralleli in cerca di una sistemazione: tutti però all’interno di un disegno politico di fondo che rimane a un tempo prioritario e condiviso. Londra nel negoziato sulla Brexit ha puntato ora sugli scandinavi, ora sulla Germania, ora su Visegrad, per cercare in nome di intese su interessi economici spesso realmente convergenti di scardinare il fronte comune, sottovalutando gravemente la forza del cemento politico dell’Ue. Molti sono i nodi di questo negoziato, ma il gap nelle rispettive percezioni psicologiche ha reso complesso anche quanto, forse, avrebbe potuto essere affrontato più pragmaticamente
Una bozza di accordo che è il meglio del peggio
La bozza di accordo concordata dal premier britannico Theresa May con l’Ue era tutt’altro che perfetta ma rappresentava realisticamente il meglio del peggio, scontentando e accontentando un po’ gli uni e un po’ gli altri. Visto in un’ottica brussellese, ci sarebbe stato spazio per lavorare su interpretazioni autentiche, dichiarazioni politiche e quant’altro, così da rendere possibile un compromesso nella migliore tradizione consociativa dell’Ue.
Non è andata così e l’ipotesi di ripresentare una quarta volta ai Comuni un testo destinato alla quarta bocciatura suona patetica prima ancora che avventata. La Brexit ha diviso dall’interno Tories e Labour, sconvolgendone gli equilibri e paralizzandone di fatto i meccanismi decisionali; ci sarebbe voluto un governo più coeso, e soprattutto un Parlamento capace di interpretare in maniera innovativa le pulsioni che si manifestavano nel Paese, per trovare le fila di una diversa e governabile coerenza. Cosa impossibile per un sistema confrontational come quello dei Comuni dove la pratica dei ‘ribaltoni’ – vilipesi, ma che a volte servono – è sconosciuta.
I giochi e il peso della politica interna
Invece, le consultazioni fra la May e il leader dei laburisti Jeremy Corbyn non hanno prevedibilmente portato a risultati, osteggiate anche dalle rispettive fazioni all’interno dei partiti. L’interesse nazionale dovrebbe puntare in direzione di un accordo e questo rappresenterebbe per la May il coronamento dignitoso di un’avventura di governo a dir poco sfortunata. A Corbyn però non conviene dare alla sua avversaria una via d’uscita, che allontanerebbe la prospettiva di elezioni politiche anticipate da cui pensa di poter uscire vincitore.
Gli avversari interni della May, capeggiati da Boris Johnson, vogliono anch’essi per ragioni opposte un fallimento dell’accordo, da cui si attendono la defenestrazione della May e la sua sostituzione con un governo Tory pronto a rimettere tutto in discussione con Bruxelles e correre l’avventura del no deal. I sostenitori di un secondo referendum, che vanno aumentando in entrambi i partiti, sono a loro volta contrari a un accordo che non contempli esplicitamente l’impegno a farlo seguire da un nuovo referendum confermativo.
Il che si scontra con la fiera esistenza dei brexiteers e il gioco dell’oca torna inesorabilmente al punto di partenza. I nodi di fondo restano tutti sul tappeto, a partire da quello – insolubile senza una adesione britannica al mercato unico – irlandese; ma anche di questo sembra si parli ormai sempre meno. Nel frattempo, entrambi i partiti non hanno saputo evitare la trappola delle elezioni al Parlamento europeo, per le quali si annuncia una disfatta a tutto vantaggio delle formazioni euro-scettiche intorno a Nigel Farage, le quali si preparano a loro volta a introdurre nel nuovo Parlamento fattori di disgregazione forse di breve durata ma di sicuro dirompenti. E così il gioco dell’oca si avvita ancor più…
Di rinvio in rinvio, la speranza di un rinvio
C’è tempo sino al 31 ottobre e a Londra c’è già chi sussurra che a quel punto non è detto che non si potrebbe avere un ulteriore rinvio. E’ una prospettiva che non risolverebbe nulla ma che, soprattutto, non tiene conto dell’ombra di Banco dell’irritazione dei 27. La Brexit ne ha sin qui consolidato il fronte comune, ma cresce la preoccupazione che ulteriori rinvii finirebbero per far esplodere divisioni che, per quanto tenute a bada, sono fin troppo evidenti: il presidente francese Emmanuel Macron dice ad alta voce quanto molti altri pensano e temono. Di ciò a Londra non si fa gran conto, dimostrando ancora una volta quanto insularismo e arroganza falsino la percezione dei suoi stessi pericoli ed interessi.
Comunque vadano le cose, ci vorranno anni per districarsi dal pasticcio di una Brexit, che non sarà minore anche nel caso improbabile ma non impossibile che l’intera sciarada si concluda con un rientro nell’ovile comunitario di una Londra frustrata e più intrattabile di quanto sia stata in passato. Un danno comunque c’è già stato, perché l’immagine del Regno Unito come un Paese alieno dagli schematismi e attento all’interesse concreto ne esce devastata. Esso ha rappresentato a lungo in Europa un riferimento ideale, e un possibile correttivo, rispetto ai modelli di democrazia rappresentativa e la sua eclisse è il primo impoverimento che la Brexit ha inferto all’Europa. Prima delle ricadute possibili sui mercati, dell’indebolimento delle capacità di difesa, dell’affievolimento della voce comune nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.