Elezioni europee: la sindrome di Calimero del nuovo ‘europeismo’
Assistiamo a un nuovo dibattito sulle ragioni dell’europeismo italiano e possiamo rammaricarci che sia iniziato sotto la spinta dei partiti sovranisti attualmente al governo. È anche giusto essere preoccupati del pericolo che la politica del governo conduca il Paese ai margini dell’Unione o addirittura fuori di essa. Una seria riflessione sulle ragioni dell’appartenenza dell’Italia all’Ue era però necessaria e da un certo punto di vista manca da parecchi decenni. Essa sta però prendendo una piega fuorviante e potenzialmente pericolosa.
Sta infatti emergendo in Italia un nuovo tipo di europeismo che, pur rigettando le posizioni dei sovranisti, concentra i suoi strali contro la politica europea del Paese degli ultimi decenni e contro la classe dirigente (politica, burocratica e mediatica) che l’ha sostenuta. Essa avrebbe infatti cercato di sopprimere il sentimento nazionale, annegandolo in un indistinto insieme europeo, accettando acriticamente l’Europa “com’è” e creando così le premesse per la rinascita del sovranismo.
Una convergenza di frustrazioni e l’enorme equivoco della Federazione europea
C’è in questa posizione una convergenza di frustrazioni: per l’incapacità del Paese a “stare in Europa”, ma anche di fronte a un’Unione percepita come fondamentalmente ostile. Assisteremmo infatti a un tradimento dell’ideale unitario dei padri fondatori di fronte al quale solo noi avremmo rinunciato a difendere l’interesse nazionale nel duro confronto fra i diversi egoismi. Mi è capitato di definire questa posizione “complesso di Calimero”. La sua perfetta illustrazione è nello slogan “l’Europa sì, ma non così”.
Alla radice di tutto ciò c’è un enorme equivoco di cui le classi dirigenti sotto accusa sono in parte responsabili. Agli italiani è stato fin dall’inizio venduto in primo luogo l’obiettivo federale, lo “spirito di Ventotene”. Non senza ragione, si pensò che questo era il modo per unificare un Paese profondamente diviso e traumatizzato dalla tragedia del fascismo e della guerra, dandogli una nuova missione nazionale.
Il problema è che l’Ue non è mai stata e non è una federazione. Del resto, le nazioni non verrebbero annullate nemmeno in una federazione, ma questo è un altro discorso. Questo non vuol dire che sia un sistema in cui Paesi sovrani collaborano liberamente secondo i loro interessi. È invece un processo che ha sicure finalità politiche, ma esse sono indefinite: federali per alcuni, ma non per altri. Esso si caratterizza soprattutto per una graduale condivisione di sovranità su problemi concreti che i Paesi membri decidono di consentire in generale all’unanimità, in un processo in cui l’interesse nazionale è sempre presente.
La conseguenza è che le cessioni di sovranità non avvengono in base a un disegno logico, ma in reazione agli avvenimenti e ai bisogni. Dove la sovranità è stata condivisa, ci sono regole comuni decise insieme alle quali non si può derogare. Dove non c’è stata condivisone, interviene il dialogo politico che può eventualmente sfociare in nuovi vincoli condivisi. La natura del processo fa sì che i vantaggi che ci si aspetta dal negoziato e le concessioni che si fanno non devono essere valutati caso per caso, ma in un’ottica complessiva di medio periodo. Il sistema può non piacere, può essere giudicato troppo lento e confuso, ma questa e non altra è l’Unione. Se non lo si capisce, non si va da nessuna parte.
I problemi legati alla percezione e comprensione dell’ ‘interesse nazionale’
Il concetto di ‘interesse nazionale’ è per definizione ambiguo e soggettivo. L’unico criterio oggettivamente valido è ritenere come tale ciò che è deciso dai governi in carica. Basta fare un giro a Bruxelles e in altre capitali per sentirsi dire che l’Italia è sempre stata piuttosto brava nel perseguire quello che i governi al potere consideravano essere un interesse nazionale. Mi è capitato di dissentire, per esempio a proposito della pervicace difesa delle imprese pubbliche fino all’inizio degli Anni 90, ma la mia era solo un’opinione personale. Al governo di Mario Monti, in particolare, possono essere imputati diversi errori, ma non certo quello di essere stato supino di fronte all’Europa. Né la svolta operata da Mario Draghi alla testa della Bce, né gli strumenti di solidarietà introdotti nella gestione dell’euro sarebbero stati possibili senza le riforme interne di quel governo, ma soprattutto senza l’opera di convincimento pazientemente esercitata nei confronti della Germania.
Dove è il problema? A mio avviso risiede nel fatto che tutti i governi negoziano in un doppio spirito nazionale ed europeo. Tuttavia, mentre gli altri presentano in primo luogo alla loro opinione pubblica i vantaggi che hanno ottenuto per il proprio Paese, noi abbiamo lasciato che si percepissero soprattutto le concessioni. Da qui la percezione di un Paese eterodiretto che non controlla gli avvenimenti e subisce le decisioni altrui (il vincolo esterno). L’altro risvolto delle politiche europee dell’Italia è la costante incapacità delle classi dirigenti di trarre sul piano interno le conseguenze delle decisioni prese in Europa. Su questo tuttavia c’è largo consenso e quindi non mi dilungo oltre.
Il ‘nuovo europeismo’ che fa il gioco dei sovranisti
È facile vedere che un ‘nuovo europeismo’ che cancella le politiche del passato per promettere, finalmente, la difesa dell’interesse nazionale fa solo il gioco dei sovranisti. Un simile atteggiamento non può che veicolare l’immagine di un’Europa forse necessaria, ma fondamentalmente ostile e costruita contro i nostri interessi. Ciò è tanto più grave se l’azione è condotta senza le necessarie alleanze.
Il rifiuto ‘dell’Europa che c’è’ non può che tradursi in ostilità verso la coppia franco-tedesca giudicata responsabile dello stato attuale delle cose. Possiamo pensare ciò che vogliamo della politica di quei due Paesi, ma sarebbe utile rendersi conto che se l’Ue va maluccio non è a causa dei loro accordi. Essi hanno al contrario in generale posizioni molto distanti e attualmente stentano a convergere. L’esperienza ci dice che solo quando cominciano ad avvicinarsi si creano le condizioni per un accordo più vasto. Il nostro problema è di entrare nel gioco che c’è, non di vagheggiare di ‘archi mediterranei’ che, ma solo per ragioni climatiche, sono appena meno velleitari ‘dell’asse Roma-Londra’ di cui si favoleggiava negli Anni 70.
Uscire dalla mitologia ed essere concreti
Perché il benvenuto dibattito sull’europeismo italiano sia costruttivo, sono necessarie due condizioni. La prima è che si esca dalla mitologia per spiegare agli italiani l’Europa come è effettivamente. La seconda è un’esigenza di concretezza quando si parla di problemi specifici.
È perfettamente legittimo e a volte doveroso accusare gli altri di violare le regole oppure di comportamenti politicamente non conformi all’interesse generale. Si tratta però di scenari completamente diversi su cui si fa troppo facilmente confusione. Gli esempi possono essere numerosi, ma mi limiterò a pochi casi.
La violazione delle regole deve essere perseguita. Gli altri lo fanno sistematicamente nei nostri confronti; noi molto poco. Certo, la Corte di Giustizia è lenta, ma le sue decisioni fanno giurisprudenza e si può ottenere soddisfazione come abbiamo visto nel caso del contenzioso che ci ha opposto alla Commissione sul sostegno alle banche in difficoltà. Sostenere che c’è stata violazione e non agire è controproducente e disonesto perché chiaramente rivolto a ottenere consenso interno senza correre i rischi del contenzioso. In questo modo il rancore dell’opinione pubblica si accumula e diventa frustrazione. Non siamo i soli a commettere questo errore. Il governo olandese accusa la Commissione di troppo lassismo nei confronti dell’Italia, ma non ha il coraggio di chiedere che sia sanzionata, come potrebbe in seno all’Eurogruppo.
Nella maggior parte dei casi invece si confonde ad arte la violazione delle regole con l’opportunità politica. Ci sono molte ragioni valide per spingere la Germania a stimolare maggiormente la domanda interna, ma non c’è nessuna regola che la obbliga a farlo. Ci sono ottimi argomenti pro o contro l’armonizzazione fiscale. Tuttavia la fiscalità è ancora una prerogativa nazionale e la situazione potrà essere modificata solo all’unanimità. È facile sostenere che i Paesi che hanno una bassa fiscalità sulle imprese sottraggono gettito agli altri. Visto che in generale hanno i conti più in ordine di noi, ci si può domandare perché non facciamo lo stesso. Evidentemente il problema è più complesso di come è raccontato. Si può invece intervenire nei casi di trattamento discriminatorio, come del resto la Commissione ha cominciato a fare. Potrei continuare.
Scomode comunanze con la Gran Bretagna e margini di tolleranza
È in corso in Europa una discussione molto concreta su ciò che è possibile fare nel prossimo avvenire; discussione da cui siamo fondamentalmente assenti, forse aspettando improbabili mutamenti catartici dalle prossime elezioni europee.
Paradossalmente, abbiamo in comune con la Gran Bretagna due cose. Da un lato, una sistematica denigrazione dell’Ue che sta scavando come un tarlo nella coscienza collettiva con conseguenze imprevedibili. Dall’altro il faticoso risveglio da due visioni opposte, ma altrettanto fuorvianti della costruzione europea. Ben venga quindi un dibattito senza complessi, ma a condizione che non si abbandoni l’idea mitologica dell’Europa salvatrice per cadere in quella, altrettanto mitologica, dell’Europa ostile.
Nel frattempo, una brutta e una buona notizia. La brutta è che ci stiamo effettivamente allontanando dall’Europa e non solo sul piano dell’economia. La buona, se così la vogliamo chiamare, è che per il momento nessuno ha interesse a un conflitto con l’Italia. Le difficoltà di Brexit, il rallentamento dell’economia, le divergenze con Visegrad, i rischi di una guerra commerciale con gli Usa sono più urgenti e importanti. Potremo quindi contare su un po’ di tolleranza, ma a condizione di non superare certi limiti e non farci male da soli.