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#1od5miliona e summit a Berlino

Serbia: Vučić tra proteste di piazza e rebus Kosovo

3 Mag 2019 - Tommaso Meo - Tommaso Meo

Il 13 aprile scorso, per il diciottesimo sabato consecutivo, migliaia di cittadini hanno protestato a Belgrado contro il presidente della Repubblica Aleksandar Vučić e contro il governo. I manifestanti chiedono ormai da quattro mesi le dimissioni dell’esecutivo e di Vučić, e la garanzia di libere elezioni. Il presidente serbo è accusato in particolare di attuare politiche autoritarie e di limitare la libertà di espressione e quella dei media, creando nel paese un clima illiberale.

Vučić, nazionalista di centrodestra e capo del Partito progressista serbo (Sns), è stato ministro dell’informazione alla fine degli anni Novanta e, come dicono esperti e opinionisti, il controllo mediatico è da sempre stato una sua prerogativa. Il presidente e il suo partito al momento controllano la stragrande maggioranza dei media mainstream, direttamente o tramite finanziamenti, mentre resistono e fanno opposizione solo poche e piccole testate, come il network televisivo N1.

La Serbia è settantaseiesima al mondo per libertà di stampa secondo la classifica 2018 di Reporters sans frontieres, graduatoria in cui ha perso dieci posizioni rispetto all’anno precedente. Molto preoccupanti sono i dati sui giornalisti aggrediti e intimiditi. Nello scorso anno sono stati registrati 102 casi, tra pressioni, minacce verbali e aggressioni. Per questi motivi chi protesta chiede con forza accesso ai media pubblici, in vista di future elezioni, al fine di una consultazione regolare.

I manifestanti di #1od5miliona
Le proteste in Serbia erano iniziate l’8 dicembre scorso dopo il pestaggio di Borko Stefanović, avvenuto il 23 novembre. Stefanović, leader del partito di opposizione Sinistra serba (Ls) e anche lui tra i promotori di Alleanza per la Serbia, è stato aggredito e ferito con una spranga di ferro. Le foto della sua camicia insanguinata hanno innescato le mobilitazioni, e il sabato pomeriggio sempre più cittadini sono scesi in piazza, marciando pacificamente per protestare contro il governo. Vučić aveva subito detto che non avrebbe dato ascolto ai manifestanti neanche se fossero stati 5 milioni – cioè una grande maggioranza della popolazione, in un Paese di poco più di 7 milioni di abitanti -. Il movimento si è così dato il nome di #1od5miliona – uno di 5 milioni -, ribaltando la provocazione.

“Uno di cinque milioni” è anche uno degli slogan scanditi nelle piazze, insieme a “gotov je” (“è finito”). Frase indirizzata al presidente Vučić e che fu gridata anche contro un altro leader di Belgrado, Slobodovan Milošević, quasi vent’anni fa. Altro tratto caratteristico della protesta è il rumore costante dei fischietti usati dai manifestanti: un modo in più per farsi sentire da un potere apparentemente sordo. I leader del governo, per tutta risposta, hanno cercato da subito di screditare le manifestazioni, diffondendo stime dei partecipanti clamorosamente ritoccate al ribasso e accusando chi scendeva in piazza di essere violento e politicamente diretto.

A manifestare, sin dai primi raduni, sono stati cittadini di gruppi sociali scontenti, soprattutto della classe media urbana, la parte della società serba più istruita e favorevole a un’adesione all’Unione europea. Tra di loro molti intellettuali, studenti e insegnanti, che per primi si sono coordinati tramite i social network. L’opposizione in piazza non ha una struttura né un’organizzazione definita, e i politici di diversi orientamenti che vi hanno aderito non hanno mai preso le prime file. In testa ai cortei e a parlare sui palchi sono stati invece giovani attivisti, insieme ad attori ed esponenti della società civile. La protesta, che si è sviluppata ed è cresciuta a Belgrado, con le settimane si è estesa a più di 50 città serbe, man mano che proseguivano i tentativi di discredito da parte delle autorità.

Gesti dimostrativi e contropiede del governo
Il momento di maggior tensione in questi mesi risale al 16 marzo, quando dei manifestanti, guidati da alcuni leader politici della protesta, sono entrati nella redazione della tv pubblica Rts. L’accusa mossa alla rete è stata di non dare spazio alle voci dei dimostranti e di essere manipolata dal governo. Gli uomini hanno chiesto che una delegazione andasse in onda per trasmettere le loro richieste. L’irruzione è durata poco per l’intervento della gendarmeria che ha arrestato 18 persone. L’ultimo precedente del genere è significativo e risale al 2000, quando i manifestanti entrarono nella sede della televisione durante le proteste che portarono alla fine del regime di Milošević.

Il giorno dopo i manifestanti hanno circondato il palazzo del governo, in cui il presidente Vučić stava tenendo un discorso sull’irruzione a Rts, di fatto intrappolandolo dentro per qualche ora. Vučić, in merito all’escalation nelle proteste, ha fatto sapere che non scenderà a patti con chi usa la violenza. Ha chiamato gli oppositori “hooligans” e “tycoons” e ha attaccato pubblicamente Bosko Obradovic e Dragan Djilas, tra i protagonisti del blitz a Rts. Il primo è il leader di Dveri, partito di estrema destra, il secondo è un politico e affarista, e uno dei fondatori della coalizione Alleanza per la Serbia, che raggruppa partiti di opposizione di diversi schieramenti, tra cui anche quello di Obradovic.

L’ultima manifestazione, ad aprile, è stata la più grande da quando sono iniziate le proteste. In piazza sono scese circa 20.000 persone, arrivate anche da lontano rispondendo all’appello degli organizzatori. La protesta si è svolta con una marcia pacifica tra il Parlamento e il palazzo del governo. Ma la risposta del Presidente non si è fatta attendere e sabato 19 aprile il suo partito, con un’organizzazione impeccabile, ha radunato nelle stesse piazze 100.000 persone a sostenerlo. Decine di pullman hanno portato a Belgrado uomini e donne da tutta da tutta la Serbia, soprattutto da quella periferica e rurale, a cui è stato pagato il viaggio e garantito un pasto. La contromossa, per quanto non spontanea – e, anzi, nella sua artificiosità – ha rafforzato agli occhi dell’opinione pubblica l’immagine del presidente, comunque indebolito da mesi di contestazioni.

Il dialogo con Pristina
Vučić è al potere da sette anni, cinque come premier e due da presidente, con il beneplacito dell’Ue che lo considera un fattore di stabilizzazione nel Paese balcanico, che punta a entrare nell’Unione nel 2025. Inoltre, sia Bruxelles sia Washington sostengono il presidente perché continui i negoziati sullo scambio di territori con il Kosovo per una soluzione definitiva della disputa tra i due Stati.

Quello dell’ex provincia serba è il secondo fronte aperto per Vučić. I rapporti con Pristina, dopo qualche apertura nei mesi passati, sono e restano tesi: mentre il Kosovo chiede il proprio riconoscimento come Stato da parte della Serbia e la definitiva liberalizzazione dei visti da parte dell’Ue, Belgrado pretende l’abolizione dei dazi al 100% sulle proprie merci per riprendere il dialogo.

E proprio il 30 aprile si è svolto a Berlino un summit sui Balcani occidentali con i leader della regione, co-ospitato dalla cancelliera tedesca Angela Merkel e dal presidente francese Emmanuel Macron – presente anche l’Alto Commissario per gli affari esteri dell’Ue, Federica Mogherini, ma assente il governo italiano che pure due anni fa aveva organizzato la tappa triestina del Vertice sulla Balcani occidentali -. L’appuntamento a Berlino – che anticipa quello di Poznan a luglio – ha confermato le condizioni poste da Serbia e Kosovo per tornare al tavolo e si è risolto con un nulla di fatto. Il dossier è però stato riaperto e Francia e Germania sembrano decise a farsi promotrici di una soluzione tra i due contendenti.

I due fronti aperti per il presidente e per il governo serbo non sono cosa da poco e potrebbero minare il consenso di cui ancora godono tra la popolazione. Vučić, pur continuando a sostenere elezioni anticipate, non appare più così sicuro di ottenere una larga maggioranza. Nel caso di consultazioni, l’opposizione si troverebbe invece a un bivio. Potrebbe boicottare le urne, soprattutto se Vučić non garantisse una campagna elettorale ad armi pari, oppure creare un vero fronte comune e, forte della spinta dei mesi di proteste, tentare di raggiungere una maggioranza. Ai movimenti anti-Vučić conviene per il momento stare insieme e portare avanti una linea unitaria per aumentare la pressione. Sembra questo l’intento di tutti se si vuole dare ascolto a uno degli slogan di piazza: “Non è finita, abbiamo appena iniziato”.

Foto di copertina © Boris Babic/DPA via ZUMA Press