Israele-Iran: l’aumento delle tensioni e i rischi dell’escalation
Nelle ultime settimane, a seguito della decisione dell’amministrazione statunitense di re-imporre completamente le sanzioni sulla repubblica islamica dell’Iran, le tensioni nel Medio Oriente sono fortemente aumentate. Il 12 maggio scorso, la crisi ha preso la forma momentanea di un’azione di disturbo da parte dei proxy iraniani nello stretto di Hormuz, coinvolgendo diverse imbarcazioni saudite ed emiratine. Con l’aumentare delle tensioni è bene valutare come si stia comportando Israele in questo frangente, considerando il grado di conflittualità con l’Iran e le diverse milizie e gruppi sciiti che agiscono non lontano dai confini dello stato ebraico.
Il silenzio di Netanyahu
A poca distanza dalla quinta rielezione, grazie ad una campagna elettorale basata molto sul tema della sicurezza e dei rapporti internazionali, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu si trova a fronteggiare diversi rischi per quanto concerne la difesa del proprio Paese (della quale detiene anche il ministero di riferimento). A ciò va inoltre aggiunto che il 29 maggio la Knesset ha votato per il proprio scioglimento dopo nemmeno due mesi dalle ultime elezioni, dal momento che il leader del Likud non è riuscito a formare un governo che avesse l’appoggio degli alleati.
Le conseguenze di questo voto complicano non poco l’analisi della situazione e delle prospettive a breve termine rispetto alla crescita delle tensioni nella regione mediorientale. In un frangente di questo tipo sembra dunque opportuno concentrarsi sul trend generale della crisi, in attesa dei prossimi sviluppi politici.
È noto come da tempo le milizie sciite e le guardie rivoluzionarie iraniane stiano intensificando la preparazione di potenziali attacchi missilistici contro lo Stato ebraico, attraverso il trasporto di un arsenale sempre più ingente verso la Siria ed Hezbollah. Già nelle scorse settimane, con gli attacchi perpetuati dalla Striscia di Gaza, è stato possibile verificare che il sistema di difesa antimissilistico israeliano Iron Dome, per quanto sofisticato e all’avanguardia, ha delle falle.
Le forze di Hamas hanno dimostrato che una tattica di saturazione è particolarmente efficace contro lo scudo che protegge Israele: con un lancio di circa 700 missili nell’arco di sole ventiquattro ore sono state in grado di fare breccia nelle difese ebraiche, causando morti e feriti. Si tratta quindi di uno degli elementi più importanti da tenere in considerazione rispetto alla tattica che i proxy iraniani potrebbero utilizzare nel caso di un’escalation delle conflittualità. A ciò va aggiunto il grande investimento degli ultimi anni fatto dalla repubblica islamica per lo sviluppo di una tecnologia missilistica a lunga gittata, che costituirebbe un ulteriore mezzo per colpire Israele.
Netanyahu è consapevole di questo rischio. Le sue scelte sembrano dimostrare che l’azione israeliana, al momento, sia indirizzata verso la retaliation, con l’obiettivo di non offrire agli iraniani un pretesto per attaccare. Il primo ministro cerca quindi di mantenere pubblicamente un certo riserbo rispetto alle possibili mosse israeliane, mentre l’aviazione (Iaf) ha evitato di colpire le ultime spedizioni di missili provenienti dall’Iran e destinati alla Siria. Questo comportamento cauto del leader del Likud è in netto contrasto con l’atteggiamento tenuto nel 2002 quando, già primo ministro, Netanyahu aveva sostenuto apertamente di fronte al Congresso americano la necessità dell’intervento statunitense in Iraq, parlando dello sviluppo da parte dell’allora dittatore Saddam Hussein di tecnologie nucleari funzionali alla creazione di armi atomiche.
La dimostrazione di forza iraniana
Mentre Israele resta in silenzio, la repubblica islamica mostra i muscoli per far capire che non cederà facilmente terreno e non accetterà indifferente la politica di massima pressione portata avanti dall’amministrazione americana. Un aspetto particolarmente rilevante in tal senso è l’ultimatum lanciato lo scorso 28 Maggio dal consiglio supremo di sicurezza della repubblica islamica sull’Iran Deal. Infatti, le autorità iraniane hanno minacciato la ripresa dell’arricchimento dell’uranio e l’adozione di ‘alcune misure’ che riguardano il reattore ad acqua pesante di Arak, se la controparte europea dell’accordo non ne garantirà, entro 60 giorni, il pieno rispetto, come ha fatto l’Iran fino ad oggi.
La prospettiva che la repubblica islamica voglia e riesca a dotarsi dell’arma atomica risulta particolarmente preoccupante per tutti i paesi nell’area, compreso Israele, il quale ha già precedentemente agito per evitare la realizzazione di tale progetto da parte di altri attori regionali (Iraq 1981, Siria 2007) attraverso bombardamenti diretti contro i reattori. Se infatti l’Iran proseguirà su questa strada, che rappresenta al momento forse l’unica – data la massima pressione statunitense –, il rischio di una escalation verso un conflitto più ampio potrebbe diventare sempre di più una possibilità concreta.
Senza via d’uscita?
La politica statunitense verso l’Iran non sembra destinata a cambiare e per la prima volta pare essere il presidente americano a dover arginare gli istinti bellicosi dei suoi più stretti collaboratori. In un tale contesto l’Iran si avvia verso l’isolamento, le dimostrazioni di forza e la potenziale creazione dell’arma atomica mentre Israele prepara i propri piani di difesa (ma anche di eventuale attacco), rendendo prevedibile uno scenario assai più caldo di quello attuale. Lo stato ebraico, per quanto al momento non propenso alla guerra, non permetterà la costruzione di reattori per la creazione di un’arma atomica da parte di un paese che rivendica da sempre la distruzione di Israele. L’Iran non sottostarà al ricatto statunitense e cercherà di dimostrare la sua forza ed indipendenza, intraprendendo un cammino rischioso. Senza un’abile e sensata azione diplomatica l’escalation delle conflittualità sembra essere più probabile.