Golfo: Usa, Iran e non solo, mari caldi ‘oltre Hormuz’
Tutti dichiarano di non volere una guerra, ma la tensione è sempre più alta nel Golfo: l’escalation c’è e il rischio di un incidente dalle conseguenze scivolose esiste. Da subito, la ‘routinizzazione’ di uno scontro a bassa intensità nelle acque intorno al Golfo (stretto di Hormuz, Golfo di Oman, ma anche Mar Rosso meridionale e Bab el-Mandeb), dato il ripetersi di minacce e incidenti, è già di per sé un fattore di rischio globale per la sicurezza marittimo-energetica e la libertà di navigazione.
Partita a due
Certo, la partita geopolitica principale è quella fra Stati Uniti e Iran: una sfida che si gioca nei rispettivi centri del potere, ancor prima che sul piano bilaterale. Tradotto: la linea d’attacco del consigliere per la Sicurezza nazionale John Bolton e del segretario di Stato Mike Pompeo, contro le riserve isolazioniste dello stesso presidente Donald Trump e soprattutto dei realisti generali del Pentagono ‘orfani’ di James Mattis a Washington; così come le provocazioni a oltranza dei pasdaran e dell’ala più oltranzista del regime iraniano, contro i più pragmatici ministro degli esteri Mohammed Javad Zarif e presidente Hassan Rouhani a Teheran.
Intanto, nel Golfo, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti (Eau) sperimentano direttamente gli effetti della politica trumpiana della ‘massima pressione’ sull’Iran. Ovvero l’aumento degli attacchi asimmetrici, verosimilmente riconducibili a Teheran e al suo network transnazionale sciita (compresi gli huthi, gli insorti yemeniti alleati ma non proxy dell’Iran), contro obiettivi commerciali ed energetici nel Golfo, anche sauditi ed emiratini.
Due incidenti, un unico segnale
Cresce il senso di accerchiamento, anche marittimo, specialmente a Riad. Il 12 maggio, quattro navi commerciali (due petroliere saudite nella zona economica esclusiva degli Eau, una nave con bandiera emiratina, un’altra con vessillo norvegese) sono state sabotate al largo di Fujairah, nel Golfo dell’Oman, già Mare Arabico. Nessuno ha rivendicato finora l’azione. Le navi avrebbero riportato danni limitati e un’inchiesta coordinata dagli Eau è in corso; i danni osservabili sulla nave con bandiera di Oslo sarebbero compatibili con mine marittime.
Il 14 maggio, sette droni hanno colpito due installazioni petrolifere nell’area di Riad, provocando l’interruzione momentanea dell’oleodotto East-West (Petroline) per accertamenti. Il lancio è stato rivendicato dagli huthi, in ritorsione ai bombardamenti sauditi in Yemen.
Due incidenti diversi che inviano un segnalo univoco ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi: gli interessi delle monarchie possono essere colpiti anche al di là del Golfo stesso, nonché dello stretto di Hormuz. Quindi, non esistono ‘mari sicuri’ intorno al Golfo.
I limiti della strategia saudita ‘oltre Hormuz’
Il messaggio è insidioso: da un decennio, sauditi ed emiratini investono nello sviluppo di infrastrutture energetiche e commerciali ‘oltre Hormuz’, data la rivalità con l’Iran e il rischio di escalation nel Golfo. Un trend sempre più marcato, alimentato da una vivace geopolitica dei porti fra Golfo, Mar Rosso-Corno d’Africa e Oceano Indiano occidentale.
I principali progetti infrastrutturali e urbanistici dell’Arabia Saudita, legati a ‘Vision 2030’, fanno perno sulla costa occidentale: ma proprio il Mar Rosso meridionale, e prima delle operazioni militari emiratine in Yemen anche lo stretto del Bab el-Mandeb, sono stati teatro di attacchi marittimi (con missili, imbarcazioni-drone e mine) da parte degli huthi, anche contro navi commerciali. Nell’agosto 2018, dopo un attacco a una petroliera di Riad, i sauditi hanno sospeso per dieci giorni il loro transito petrolifero nel Bab el-Mandeb. L’oleodotto Petroline convoglia il greggio della regione orientale del regno verso i terminal per l’export di Yanbu, Mar Rosso.
Dunque, la rotta occidentale non può più essere considerata dai sauditi come un’alternativa sufficientemente sicura a Hormuz.
Fujairah, Abu Dhabi e l’Oman
Il vice ministro della difesa saudita, Khalid bin Salman Al Saud, fratello minore del principe ereditario MbS e già ambasciatore negli Usa, ha attaccato duramente gli huthi e l’Iran, accusandoli di essere dietro i due episodi. La reazione degli Eau è stata invece più pacata: pur colpita nelle sue acque, Abu Dhabi non vuole dare la sensazione, per ragioni commerciali legate in primo luogo a Dubai, che il quadrante stia diventando ‘caldo’.
L’emirato di Fujairah (180 chilometri da Abu Dhabi), ex bastione portoghese nella valle della Batinah che prosegue fino in Oman, ha un naturale valore aggiunto: è l’unico situato a est di Hormuz. Pertanto, Abu Dhabi ha qui investito molto per aprirsi uno sbocco diretto nell’Oceano Indiano: l’oleodotto che traporta il greggio dalla capitale emiratina (il 90% viene estratto nell’emirato principale) fino a Fujairah è stato inaugurato nel 2012. Un secondo sito di stoccaggio è in costruzione. Nel 2017, Abu Dhabi Ports ha siglato un contratto di 35 anni per la concessione del porto di Fujairah: diventerà un hub per il re-export delle merci che arrivano a Khalifa Port (Abu Dhabi), provenienti da India, Pakistan e Corno d’Africa, in concorrenza diretta con il porto di Salalah in Oman, altro centro emergente per il re-export.
Proprio il Sultanato rimane un attore cruciale per la stabilità dell’area: omaniti e iraniani hanno un accordo per il pattugliamento di Hormuz (2010) e hanno appena siglato un memorandum di cooperazione militare, esercitazioni navali comprese. Muscat dialoga con l’Iran e con gli insorti huthi. Un ruolo più che mai prezioso, ma sempre più malvisto da Riad, in un Golfo altamente polarizzato e in piena escalation.