Elezioni europee: Ue, il valzer delle nomine, poltrone e criteri
Pure in assenza dei risultati elettorali del 26 maggio, i capi di governo dell’Ue hanno cominciato a ragionare sulle nomine dei candidati ad occupare le posizioni chiave nelle istituzioni comunitarie. Come è noto, le poltrone in gioco sono quelle di presidenti della Commissione, del Consiglio europeo e del Parlamento europeo, cui si aggiungono, ad ampliare lo spettro di questa grande partita a scacchi, anche il posto di alto rappresentante e di Governatore della Banca centrale europea.
Nell’ultimo Consiglio europeo di Sibiu, nel cuore della Transilvania, tenutosi il 9 maggio, il presidente Donald Tusk ha fornito un primo assaggio della complessità di questa partita delle nomine. Ha infatti indicato i criteri base, su cui matureranno le scelte: in particolare, geografico (Est/Ovest, Nord/Sud), demografico (Paesi piccoli vs Paesi grandi), politico (il peso dei partiti e delle coalizioni) ed infine di genere.
Di fronte a questo rompicapo, va quindi subito detto che il suo auspicio di avere il pacchetto di nomi, compreso quello di presidente della Commissione, già nel Consiglio di fine giugno è una pia illusione. In effetti, nelle precedenti elezioni del 2014 si è dovuto aspettare fine agosto e ben quattro riunioni del Consiglio europeo. Questa volta sarà ancora più difficile e ciò per varie ragioni.
La procedura degli Spitzenkandidaten
La prima riguarda la cosiddetta procedura degli Spitzenkandidaten, una delle rare espressioni tedesche che si sono imposte nel gergo comunitario. L’indicazione del candidato presidente della Commissione da parte delle coalizioni di partiti che ne propongono il nome durante la campagna elettorale è stata utilizzata per la prima volta nel 2014, quando Jean-Claude Juncker, allora capolista per il Ppe, è stato eletto/nominato alla presidenza della Commissione. Una delle ragioni per adottare questo sistema, non previsto formalmente dai trattati, era quello di “democratizzare” l’Ue, creando un legame ‘diretto’ fra gli elettori e la massima carica di Bruxelles. In realtà questo soprassalto di democrazia non si è poi visto nei fatti, anche perché in questi cinque anni di crisi dell’Euro, a governare l’Unione non è stata la Commissione, ma il Consiglio europeo.
Ed è proprio questa consapevolezza a spingere oggi i capi di governo dell’Ue a non volere più rinunciare al potere previsto dai trattati di scegliere, senza automatismi, il futuro presidente dell’Esecutivo di Bruxelles. Dal presidente francese Emmanuel Macron al leader lussemburghese Xavier Bettel, dall’austriaco Sebastian Kurz allo spagnolo Pedro Sanchez è ormai un coro di ostilità e dubbi sulla procedura sostenuta dal Parlamento europeo. Con il paradosso aggiuntivo, che neppure alcune famiglie politiche del Parlamento vogliono seguire questo sistema: i liberali dell’Alde hanno infatti indicato ben sette candidati al posto di presidente, affossando con ciò l’intera logica della procedura. Si prospetta quindi una battaglia fra Parlamento e Consiglio che presumibilmente allungherà i tempi per la scelta del nome del presidente della Commissione, anche perché in ogni caso il candidato a rivestire quella carica dovrà poi ottenere la fiducia del Parlamento europeo.
Un nuovo Parlamento più frammentato dell’attuale
Su questo ultimo punto si profila la seconda ragione che potrà rendere più complessa del solito la partita delle nomine. E’ infatti probabile, a leggere i sondaggi più recenti, che il prossimo Parlamento sarà molto più frammentato dell’attuale. A parte la crescita data ormai per scontata delle forze nazionalistiche ed euroscettiche, che tuttavia non raggiungeranno la maggioranza all’interno dell’Assemblea, il vero problema è che i due partiti europei tradizionali, popolari e socialisti, sono destinati a scendere nel numero dei seggi.
Non riusciranno quindi ad avere i voti (la previsione è di 329 seggi contro gli attuali 403) per arrivare alla maggioranza parlamentare di 376 necessaria ad indicare ed eleggere il presidente della Commissione, spartendosi poi politicamente le altre cariche. Oggi, infatti, come emerso dall’ultimo dibattito fra gli Spitzenkandidaten, assistiamo al tentativo del socialista Frans Timmermanns di cercare un’alleanza in contrasto con il Ppe, che metta insieme una grande coalizione di centro-sinistra, dal premier greco Alexis Tsipras a Macron, per bloccare il centro-destra che potrebbe crearsi attorno ai popolari.
Ma anche così, secondo gli ultimi dati, tale coalizione arriverebbe al massimo a 328 seggi, al di sotto di quella assoluta di 376. Anche questa sembra una pia illusione, perché è molto più probabile che i liberali e i macroniani decidano di collegarsi con i popolari su un fronte di centro destra. In ogni caso la maggioranza in Parlamento si formerà proprio sullo ‘scambio’ di poltrone. Molto più probabile, quindi, che se il Parlamento vuole riuscire a contare di più anche nel campo delle nomine sarà necessario pensare ad una grande alleanza di centro con popolari, socialisti, liberali, macroniani e verdi. Questa complessa prospettiva all’interno del futuro Parlamento sarà un altro dei fattori destinato a rallentare il corso delle nomine.
La crescita dei partiti sovranisti ed euro-scettici
Una terza ragione di complicazione della partita sui candidati deriverà dalla crescita dei partiti di destra ed euroscettici. Le previsioni indicano le forze populiste intorno ai 200/240 seggi, a seconda della collocazione nelle esistenti famiglie politiche europee dei numerosi partiti nazionali che si richiamano a tale logica. Difficile credere che essi riescano a formare un unico grande blocco europeo, dal momento che al di là di qualche tema di fondo come immigrazione e recupero nazionale delle competenze trasferite a Bruxelles, su tutte le altre questioni non hanno piattaforme comuni.
Possono creare tuttavia non pochi ostacoli anche nel campo delle nomine, poiché i governi populisti tenderanno ad indicare commissari in linea con il loro orientamento politico. Infatti, essendo i candidati commissari scrutinati ed approvati dal Parlamento europeo, è molto probabile che si assisterà ad una fiera lotta fra maggioranza pro-europea e forze populiste su determinate figure indicate dai governi estremisti, poco digeribili per una maggioranza pro-europea. E’ quindi probabile che i mesi per avere una Commissione funzionante siano più numerosi del solito.
Si aggiungano, infine, oltre al criterio politico sopra descritto, quello geografico, demografico e di genere. Francia e Germania vorranno certamente ottenere un paio di cariche di vertice. I Paesi dell’Est e del Sud stanno già reclamando posti per sé. I piccoli, come è stato con l’elezione di Juncker, non voglio rimanere a bocca asciutta. Ed infine un grande e autorevole gruppo di rappresentanti femminili, dalla lituana Dalia Grybauskaité, attuale presidente della repubblica, alla riluttante Angela Merkel, sono destinate ad entrare nell’agone.
Vi è una sola certezza in questa grande partita a scacchi. Il miracolo italiano di cinque anni fa, Mario Draghi al vertice della Bce, Federica Mogherini alto rappresentante e Antonio Tajani presidente del Parlamento europeo, sarà un fatto straordinario da tenere stretto nell’album dei ricordi. Sicuramente non si ripeterà e sarà già una grande battaglia per il governo riuscire ad ottenere un portafoglio di un certo peso all’interno della Commissione. Ma anche su questo argomento sarà necessario un grande impegno e notevole costanza per raggiungere un accettabile risultato.