Usa 2020: quando il candidato indipendente è decisivo
Sul finire del gennaio scorso, nel prospettare l’intenzione di presentarsi da candidato indipendente alle presidenziali del 2020, il miliardario Howard Schultz ha scatenato l’indignazione di quanti temono che una sua candidatura possa aiutare la rielezione del presidente Donald Trump. Nel frattempo, altre preoccupazioni sono alimentate dai tentativi di un piccolo partito, l’American Party di South Carolina, volti a organizzare un sistema di alleanze in grado di offrire un’alternativa centrista alle prossime elezioni, nonostante il sistema politico statunitense continui a caratterizzarsi per un notevole grado di rigidità.
In effetti, non appena un nuovo gruppo inizia anche solo a pianificare una propria piattaforma politica, uno dei principali partiti, talvolta entrambi, cerca di coinvolgerlo nella propria azione. È il caso di Bernie Sanders, prontamente assorbito, insieme ai suoi sostenitori, dal partito democratico. Per molti versi è anche quanto avvenuto fra Trump e il partito repubblicano. È solo in quei casi in cui i due grandi partiti non sono in grado di farne propri i punti di vista, che candidati a loro estranei riescono a farsi avanti alle presidenziali. Sempre a condizione che riescano davvero a candidarsi.
Dal punto di vista procedurale è infatti necessario presentare documenti e firme con delle modalità, ed entro dei termini, che variano da Stato a Stato. Cosa facile per i candidati dei grandi partiti, difficile per gli altri.
I candidati terzi di maggiore successo
Per quanto numerosi, raramente candidati terzi sono riusciti a influire sul risultato elettorale. Uno di questi fu Theodore Roosevelt. Dopo aver prestato servizio come presidente dal 1901 al 1909, Roosevelt lasciò il partito repubblicano per candidarsi alle presidenziali del 1912 per il suo Bull Moose Party. Ottenne il 27% del voto popolare e ben 88 Grandi Elettori dei 531 allora disponibili, il miglior risultato mai raggiunto da un candidato terzo, ma consegnò la Casa Bianca al democratico Woodrow Wilson.
Le altre simili candidature di maggior rilievo sono state quelle di Robert Lafollete, che ha rappresentato il Progressive Party nel 1924, e di Ross Perot, che si è candidato come indipendente nel 1992. Lafollete prese il 17% del voto popolare e 13 voti elettorali, tutti a detrimento del partito democratico. Perot prese il 19% dei voti, condannando alla sconfitta un partito repubblicano guidato dall’allora presidente in carica George W. H. Bush.
Perot corse di nuovo nel 1996 con il Populist Reform Party, ma questa volta si fermò all’8%. In tutti e due i casi, Perot non si aggiudicò neanche un voto elettorale. Le due avventure elettorali di Perot evidenziano la sfida sistemica che i candidati terzi devono affrontare per affermarsi nel collegio elettorale, il corpo costituzionale composto da 538 grandi elettori che elegge il presidente e il vicepresidente. Al tempo stesso costituiscono il miglior esempio di quanto una forte candidatura indipendente possa influire sul dibattito politico. La singolare attenzione di Perot sul pareggio del budget costrinse tanto i repubblicani quanto i democratici a far propria tale questione.
Quando il candidato terzo è decisivo
D’altra parte, anche candidati dall’attività politica a malapena visibile e, quindi, consapevolmente destinati a un risultato comunque limitato sono però in grado d’influenzare il risultato nazionale nel caso in cui abbiano successo all’interno di una ben determinata realtà regionale. Questo fu l’obiettivo di George Wallace nel 1968 quando, dopo aver lasciato il partito democratico, si candidò per l’American Independent Party. Wallace non ambiva alla Casa Bianca, che sapeva irraggiungibile, ma intendeva negare ai candidati dei due grandi partiti, Richard Nixon e Hubert Humphrey, la maggioranza nei collegi elettorali della vecchia confederazione, in modo da poter manovrare per limitare l’affermazione dei diritti civili.
Alla fine, la sua candidatura gli valse il 13% del voto popolare e 46 voti elettorali. Un altro candidato dalle ambizioni relativamente modeste fu John Anderson. Sconfitto nelle primarie repubblicane del 1980, Anderson si presentò come indipendente nel tentativo di moderare il conservatorismo di Ronald Reagan. Raggiunse oltre il 6% del voto popolare, ma la sua candidatura ottenne più che altro i voti di quanti all’interno del Partito Democratico non si riconoscevano nella presidenza di Jimmy Carter.
Il ruolo giocato da libertari e verdi
Dopo democratici e repubblicani gli altri grandi protagonisti della scena politica statunitense sono libertari e verdi. Dal 1972 il partito libertario è il terzo partito degli Stati Uniti. A volte in grado di raggiungere risultati di rilievo a livello locale, nel 2016 il partito libertario ha superato il 3% del voto popolare con Gary Johnson, con tutta probabilità a scapito di un candidato parzialmente affine qual’era Trump.
Ancora più incisivo a livello nazionale si è invece rivelato il Green Party. Alle elezioni del 2000, sotto la guida di Ralph Nader, il Green Party sfiorò il 3% del voto popolare e fu determinante in Florida a vantaggio del partito repubblicano: basto per aprire le porte della Casa Bianca a George W. Bush.
Qualcosa di simile è successo nel 2016, quando il numero di voti che Jill Stein ha ottenuto per il Green Party in Michigan e Wisconsin ha superato la differenza con la quale Trump ha battuto in quei due Stati Hillary Clinton. Se si presume che gli elettori di Stein fossero ideologicamente più vicini a Clinton che a Trump, è chiaro come una manciata di elettori nel posto giusto, e al momento giusto, può effettivamente cambiare il corso della storia.