Ue/Cina: le intese commerciali schiacciano i diritti umani
Al termine del summit annuale tra i leader della Repubblica popolare di Cina e gli omologhi dell’Unione europea, martedì 9 aprile a Bruxelles, Pechino ha potuto tirare un sospiro di sollievo.
Prima di partire per il Belgio, il premier cinese Li Keqiang temeva di concludere questo XXI meeting senza un comunicato congiunto. Il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk e quello della Commissione europea Jean-Claude Juncker avrebbero infatti abbandonato i tavoli negoziali se Pechino non avesse messo in chiaro la sua posizione sul commercio con il blocco europeo. È stato questo uno dei punti discussi dai leader delle due potenze economiche, in evidente preoccupazione per la guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti, che stenta a finire e opprime il mercato europeo.
Dopo nove lunghi anni di trattative, il vertice ha prodotto traguardi importanti: Pechino ha promesso di rafforzare i legami commerciali con Bruxelles fornendo una “parità di condizioni” per le imprese di entrambi i Paesi. L’equilibrio commerciale, infatti, è stato il fil rouge di questo summit, per evitare disparità di tutele fra le aziende cinesi nel mercato europeo e quelle europee in suolo cinese. Pechino si è così impegnata ad ampliare l’accesso al mercato interno, a prevenire il trasferimento forzato di tecnologia e a cooperare alla riforma dell’Organizzazione mondiale del commercio in materia di sussidi industriali.
Le accuse di Bruxelles – che aveva definito solo un mese fa la Cina un “rivale sistematico” – sono state messe a tacere grazie a un altro importante accordo relativo al controverso progetto infrastrutturale della Nuova Via della Seta. All’incontro di Bruxelles, la Cina e l’Ue hanno quindi concordato per creare sinergie tra la Belt and Road Initiative e il programma europeo Connecting Europe and Asia, che ha come obiettivo quello di aumentare la connettività tra i due continenti.
Occhi su Est e Balcani
Dopo l’incontro con i big dell’Unione europea, il premier Li, alla guida di una numerosa delegazione governativa, è arrivato l’11 aprile a Dubrovnik, sulla costa dalmata croata, per un vertice di due giorni con i Paesi dell’Europa centro-orientale e dei Balcani, il cosiddetto formato 16+1. Il 16+1 è un forum di natura economica e politica che fa incontrare le offerte (sostanziose) di Pechino e le domande dei Paesi al di là dell’ex cortina di ferro e dell’ex Jugoslavia.
Bruxelles ha espresso preoccupazioni per l’interesse della Cina verso l’Europa centro-orientale e i Balcani, dove Pechino agisce in maniera indipendente e operando, talvolta, un divide et impera rispetto all’unità dell’Unione europea. Un atteggiamento non nuovo per Pechino, che sembra si stia sfregando le mani per il caos relativo alla Brexit. Secondo l’ultimo rapporto della UN Conference on Trade and Development, uno dei principali Paesi a ottenere grossi vantaggi da un’eventuale uscita senza accordo del Regno Unito sarebbe (stata) proprio la Cina perché aumenterebbe l’export verso Londra, raggiungendo il valore di 10,2 miliardi di dollari.
Le proteste per la minoranza uigura
Ma il summit di Bruxelles si è svolto anche nel ciclone delle proteste: le rappresentanze delle minoranze musulmane che vivono nella regione dello Xinjiang si sono ritrovate davanti al Consiglio europeo per manifestare contro il silenzio delle istituzioni. Da mesi le Nazioni Unite denunciano la detenzione di oltre un milione di uiguri nei centri nella regione del nordovest della Cina. In queste prigioni a cielo aperto – che Pechino continua a definire “centri di educazione vocazionale” – i detenuti si alzano ogni giorno intonando l’inno nazionale, imparano la lingua cinese, promettono fedeltà al Partito comunista; inoltre, sono condannati ai lavori forzati e non possono osservare i precetti della religione musulmana.
Le organizzazioni non governative speravano che il summit potesse sollevare il tema della violazione dei diritti umani perpetrata da Pechino, ma il potere commerciale esercitato dal Dragone ha vinto ancora: Tusk ha fatto genericamente riferimento alla questione del rispetto dei diritti umani in Cina, ma non si è soffermato sull’oggetto delle doglianze dell’Ue.
Hong Kong e la stretta sugli Ombrelli
E il 9 aprile, proprio mentre i leader dell’Ue stavano firmando accordi commerciali bilaterali con la Cina, a Hong Kong venivano condannati nove esponenti del movimento degli ombrelli per vari reati legati “al disturbo della quiete pubblica”, secondo le leggi di epoca coloniale britannica. Il massimo della pena previsto è sette anni.
Tra gli arrestati ci sono anche i professori universitari Benny Tai e Chan Kin-man e il reverendo Chu Yiu-ming che nel 2014 avevano fondato il movimento Occupy Center with Peace and Love, uno dei gruppi che hanno animato la protesta democratica nella città portuale. I nove, ora liberi su cauzione, all’uscita dal tribunale e accolti da un bagno di folla, hanno urlato “vogliamo il suffragio universale” (su circa 3 milioni e 800 mila aventi diritto, appena poco più di mille votano direttamente per la massima dirigenza in seno al Comitato elettorale, composto da esponenti della vita sociale, economica, agricola e culturale di Hong Kong).
Era il 2014 quando le principali arterie della città si riempirono per 79 giorni di manifestanti in quella che è passata alla storia come la Rivoluzione degli Ombrelli. L’animata protesta aveva come scopo quella di ottenere il suffragio universale per l’elezione del 2016 del chief executive dell’ex colonia britannica.
Sono passati cinque anni e la macchina repressiva dell’attuale amministrazione di Hong Kong, filo-pechinese, ha continuato a lavorare e a punire chi ha osato sfidare il gigante dirimpettaio. In questi anni sono state arrestate circa mille persone, tra cui i volti più noti della protesta degli ombrelli gialli: Joshua Wong e Nathan Law. Non sarà l’ultimo passo del governo appoggiato dalla Cina per punire i leader delle proteste che hanno scosso l’ex colonia britannica. Si aspetta di vedere come le autorità di Hong Kong agiranno il 4 giugno 2019, giorno in cui ricorre il trentesimo anniversario della strage di Piazza Tienanmen.
Foto di copertina © Dario Pignatelli/DPA via ZUMA Press