Brexit: i paradossi del processo d’uscita o l’apologia della May
Il rinvio di circa sei mesi concordato dalla Gran Bretagna con i 27 al Vertice straordinario del 10 aprile riapre la prospettiva di una Brexit light e – anche se meno probabile – quella di un secondo referendum, con la possibilità di una rivincita dei remainers (e di una implosione del Partito conservatore). Ogni commento sullo spettacolo ridicolo offerto dalla classe politica britannica, e sull’assurdità di tutta la vicenda qualora si dovesse tornare alla casella di partenza, dopo aver stravolto la vita dell’Unione tre o quattro anni, è scontato. L’unico modo per dire qualcosa di originale è un tentativo di difesa, parziale certo, dell’operato di Theresa May negli ultimi mesi: la premier è spesso accusata di aver provocato questo caos gestendo in modo dissennato il processo di sganciamento dall’Unione europea.
Le colpe di Cameron
La responsabilità del grande pasticcio ricade in primo luogo, non dimentichiamolo, su David Cameron, che per mere finalità di politica interna (fermare l’emorragia verso lo Ukip e consolidare così la maggioranza del Partito conservatore), lanciò nel 2013 la scommessa del referendum. Sin d’allora era chiaro che un’uscita dall’Unione doganale avrebbe inevitabilmente comportato il ripristino di una frontiera visibile, con controlli, fra le due parti dell’Irlanda (hard border) e minato gli accordi del 1998 che avevano messo fine ai troubles; unica alternativa, ovviamente improponibile per gli unionisti dell’Ulster, la creazione di una frontiera doganale fra le due isole.
La decisione temeraria di Cameron è poi stata aggravata dalla leggerezza con cui nel 2016 si è sottoposto all’elettorato un dilemma su una questione così complessa senza fissare dei ragionevoli paletti: data l’importanza e i costi della svolta proposta, sarebbe stato normale subordinare il divorzio a una maggioranza qualificata (il 60% dei votanti, o addirittura il 50% degli aventi diritto) e sottoporre il risultato del successivo negoziato con Bruxelles ad un secondo referendum. Escludendo sin dall’inizio un’uscita senza accordo (no deal).
Gli errori della May
Theresa May, che aveva votato contro la Brexit, ha raccolto questa pesante eredità. Avendo constatato che i leavers avevano vinto di stretta misura, e che i remainers erano la maggioranza in Scozia e a Londra, sarebbe stato logico optare per una soft Brexit. Tanto più che il nodo irlandese imponeva di restare nel mercato unico, o almeno nell’Unione doganale. Avrebbe significato svuotare la Brexit? No, a partire dal 2021 si sarebbe risparmiato il contributo netto al bilancio dell’Unione (su cui aveva tanto insistito la martellante propaganda di Boris Johnson) e si sarebbe limitato l’afflusso di nuovi immigrati dall’Ue; e si sarebbe soddisfatta la diffusa ansia di ‘sovranità’, in cambio della perdita del voto negli organi decisionali di Bruxelles anche sulle materie attinenti all’Unione doganale che toccano gli interessi del Regno Unito.
Ma l’orgoglio, e la competizione con Johnson e compagni, ha spinto l’aspirante Iron Lady numero due ad arroccarsi sul fatidico Brexit means Brexit: cioè la hard Brexit (da non confondersi con il no deal!); e quindi ad inoltrarsi nelle sabbie mobili del confine fra le due Irlande. Per poi cacciarsi gratuitamente in altri guai, proprio come Cameron, lanciando e perdendo la scommessa delle elezioni anticipate. Con il risultato di mettersi nelle mani degli oltranzisti nord-irlandesi (Dup).
Ma la May non merita la lapidazione
Tutto il resto non è che la conseguenza di questi errori iniziali, della May e del suo predecessore. La triplice bocciatura ai Comuni dell’accordo negoziato con Michel Barnier non ha nulla a che vedere con i contenuti di quelle 600 pagine, che forse nessuno dei deputati ha mai letto. Unica ragione il backstop (permanenza nell’Unione doganale anche dopo il periodo transitorio) reso inevitabile dal problema irlandese: in sostanza un ritorno alla soft Brexit. Presentata come temporanea in attesa di un superamento di quel problema, peraltro poco verosimile.
La ripresentazione dell’accordo bocciato, e poi la serie di votazioni su varie alternative, può essere apparsa caotica e priva di una strategia. Ma è stato un modo per dimostrare di averle tentate tutte prima di cercare la collaborazione di Jeremy Corbyn e del Partito laburista e prima di rassegnarsi a preparare le elezioni europee. Uno snodo cruciale è stato il voto contro l’opzione no deal exit, che ha aperto la strada alla richiesta di rinvio. Inizialmente era stata presentata come escludente un ripensamento sulla Brexit o anche solo la partecipazione alle elezioni di maggio; ma, di fronte al non possumus dei 27, preludeva alla riapertura delle opzioni a lungo negate, soft Brexit su base bipartisan, o secondo referendum, o entrambi, con o senza elezioni nazionali. La prima opzione, che nella sostanza (permanenza nell’Unione doganale) differisce poco dall’accordo sul backstop, appare al momento la più probabile, anche se Corbyn si mostra freddo.
Un secondo referendum sarebbe ammissibile?
Da più parti, non solo in Gran Bretagna, si è affermato che un secondo referendum equivarrebbe a calpestare la volontà popolare espressa nel giugno 2016. Questa tesi ignora il fatto che il referendum indetto da Cameron era consultivo, e non previsto da alcuna norma costituzionale. Sul piano giuridico il responso non vincola il governo, né il Parlamento; politicamente non possono non tenerne conto, ma unitamente ad altri fattori attinenti all’interesse nazionale, fra cui il mantenimento della pace nell’Ulster.
Anche quando un referendum è vincolante, o ritenuto tale politicamente, lo è solo rebus sic stantibus. Di fronte ad un accordo considerato più dannoso del previsto (backstop) o alla prospettiva di un no deal exit, certamente non preventivata, un governo è pienamente legittimato a consultare nuovamente l’elettorato. I precedenti non mancano: basti pensare alle imbarazzanti bocciature irlandesi del Trattato di Nizza nel 2001 e di quello di Lisbona nel 2008, superate un anno dopo grazie a nuove consultazioni popolari (2002 e 2009).
Se la Gran Bretagna dovesse andare verso un nuovo referendum, dovrà essere una scelta fra due, non tre, opzioni. Escluso il no deal, l’alternativa sarà fra (a) remain e (b) leave in base ad un accordo già approvato dai 27: quello ora sul tavolo o una variante concordata con i laburisti (e sicuramente deplorata dai sostenitori della hard Brexit); oppure, dopo nuove elezioni vinte dal Labour, un accordo negoziato da un governo Corbyn senza Theresa May.