Ruanda: il viaggio nella memoria di Justin contro il negazionismo
“Il negazionismo si fa strada, in particolare nelle zone rurali dove dicono che non ci sia mai stato genocidio. Per questo non bisogna dimenticare e continuare a darne testimonianza”: sono le parole di Justin Niyonzima. Il genocidio a cui si riferisce è quello che nel 1994 causò in Ruanda la morte di circa un milione di persone, uccise a colpi di machete. “Sono tutsi e sono un sopravvissuto – dice –. Voglio raccontare quello che mi è successo, sento l’obbligo di condividerlo”.
La testimonianza di Justin
Per “darne testimonianza” Justin è in giro per l’Italia assieme all’onlus Compassion. Roma, Firenze, Bari, Torino sono alcune delle tappe cui ne seguiranno altre per raccontare la sua storia, una storia copione per 800mila persone che in quei 100 giorni, dal 7 aprile di quell’anno, rimasero orfani. Justin è uno di loro. Ora ha 32 anni, ma allora ne aveva appena sette. Adesso è diplomato, operatore turistico, molto conosciuto a Kigali, dove vive, impegnato nelle chiese cristiana evangeliche, sposato e padre di una bambina.
”Prima che scoppiasse la guerra – racconta – ero felice con la mia famiglia, andavo a scuola, ero contento con i miei amici e non conoscevo affatto la differenza tra hutu e tutsi. Il 6 aprile del 1994 nella mia casa tutto è cambiato – ricorda Justin –. Mio padre e mia madre non andarono più in fattoria per badare agli animali e stavano sempre con le orecchie appiccicate alla radio, ad ascoltare gli aggiornamenti su quello che stava succedendo. Gli hutu al potere avevano iniziato a uccidere i tutsi. Io ho chiesto come si facesse a capire chi era hutu e chi era tutsi. I miei genitori si sono limitati a rispondere, ‘ Noi siamo tutsi, verranno a ucciderci’. Siamo scappati”.
Una strage porta a porta
La narrazione di Justin comunica tutta la crudeltà e l’insensatezza di una guerra porta a porta, casa per casa, in un clima di ubriacatura generalizzata: “Vedevo auto con uomini a bordo che cantavano a squarcia gola una canzone ‘uccidiamo, uccidiamo i tutsi’. Il loro programma era di eliminare per primi gli uomini e i giovani che quindi, nel tentativo di nascondersi, se ne andarono via per primi lasciando donne e bambini. Io, mia madre e le mie tre sorelle salimmo in montagna. Pioveva, pioveva in modo torrenziale. Dormimmo sotto la pioggia, tra le foreste. Non c’era da mangiare, io avevo fame”.
“Poi, una mattina, un commando di hutu invita tutti ad uscire dalle foreste con l’assicurazione che nessuno sarebbe stato ucciso– continua Justin –. Siamo usciti in 200, ma non era vero quello che ci avevano detto. Era una trappola. Ci hanno radunati e disposti in cerchio. Alcuni erano armati di pistola, altri di machete. Prima, per intimorirci, hanno sparato in aria”.
Il resto del racconto è una carneficina. Justin bambino vede la testa di sua madre volare per aria, l’istinto lo porta, assieme alle sorelle, a correre, di nuovo verso le montagne. Perde le sorelle tra quei sentieri. Non le incontrerà mai più, come la madre, come il padre. “A un certo punto – riprende il racconto – mi sono trovato solo, sotto la pioggia, tanta pioggia, tanto fango. Ma avevo sete, ero sfinito. Ho preso tra le mani dell’acqua fangosa e ho bevuto. Poi sono riuscito a raggiungere la moglie di un mio zio, con lei sono ritornato sui monti. Eravamo in un gruppo di una decina di persone. Chi era più forte, più veloce, scendeva ogni tanto nel villaggio per recuperare un po’ di cibo. Di giorno ci dividevamo perché gli hutu ci cercavano con i cani. La sera ci radunavamo”.
La vittoria del Fronte Patriottico Ruandese e la fine del genocidio
Due mesi di terrore. Poi la vittoria del Fronte Patriottico Ruandese e la fine del genocidio, ma la popolazione era lacerata, profondamente ferita. In occasione del 25o anniversario del genocidio il presidente Paul Kagame, nel suo discorso al Kigali Genocide Memorial, ha parlato di un Paese-famiglia, ricompattato, unito. Ma per Justin si tratta di un processo in divenire.
“Subito dopo il genocidio – confida– dove avevo perso tutto, non era facile convivere. Ero disperato. A scuola, in classe, avevo come compagni i figli di coloro che aveva fatto tanto male a me, alla mia famiglia, a molti altri. Molti hutu erano scappati, in Europa, nei Paesi limitrofi. Ci volle del tempo perché rientrassero”.
Il presupposto è la riconciliazione
Tempo perché iniziassero i processi a coloro che avevano commesso crimini o si erano resi complici. Ma soprattutto tempo per il lento lavoro di ricostruzione sociale: “Bisognava far crescere i bambini – osserva Justin –, fare ripartire la generazione colpita dalla guerra. Si poteva ripartire dalla volontà di eliminare ogni distinzione tra hutu e tutsi. Il presupposto era ed è tuttora: siamo una comunità ruandese unica” .
Il presupposto è la riconciliazione: “Io ho perdonato coloro che hanno eliminato la mia famiglia – confessa Justin -. Quando sono usciti dalla prigione, mi hanno cercato e mi hanno chiesto di perdonarli. Ora il Paese è ripartito, sta crescendo. Si sono formate molte cooperative, sono state attivate forme di micro-credito per progetti d’impresa. E’ un Paese giovane, pieno di risorse”.
Al dibattito della comunità internazionale (in quei 100 giorni indifferente sul genocidio) su quanta democrazia ci sia nel Ruanda a iniziare dal suo presidente dai consensi plebiscitari, Justin Niyonzima preferisce quello su quanta compattezza, solidarietà sociale ci sia. Il fantasma delle differenze etniche, strumentalizzate a scopi di potere, a partire dalle potenze coloniali, è quello che lo preoccupa di più. Per questo prosegue il suo viaggio della memoria.