Ruanda: il ricordo e gli strascichi d’una tragedia della follia etnica
Un giardino, un museo, i nomi e le foto delle vittime – almeno di quelle conosciute -, migliaia di visitatori: è il ‘Kigali Genocide Memorial’ dove sono sepolti i resti di 250 mila degli 800 mila morti, quasi tutti di etnia tutsi, massacrati dai ‘nemici’ hutu nel 1994, durante cento giorni di violenza etnica tra le più folli del XX secolo. A 25 anni di distanza, i grattacieli e i parchi curati della capitale del Ruanda sembrano aver cancellato lo shock di quelle strade macchiate di sangue, dei troppi corpi abbandonati ovunque. E oggi parlare di etnia è illegale. Ma i segni della violenza rimangono nella memoria collettiva e nella fiamma della rimembranza accesa nel Memoriale dal presidente Paul Kagame, che ha proclamato cento giorni di lutto in occasione del quarto di secolo dalla strage.
Genesi e cronaca della folle mattanza
Era il 6 aprile 1994 quando fu abbattuto nei cieli di Kigali l’aereo sul quale viaggiava l’allora presidente ruandese Juvenal Habyarimana, un hutu sostenuto dalla Francia. Da chi, non si è mai saputo. Gli hutu accusarono i ribelli tutsi del Fronte Patriottico Ruandese allora guidato da Kagame. Alcuni analisti ritengono che la responsabilità fu dell’area più estremista degli stessi hutu, contrari alla firma da parte del presidente di un accordo di pace con i tutsi. Quali le cause, le conseguenze furono le stesse.
Il giorno dopo iniziò la mattanza. Lo sterminio fu sistematico. Le milizie hutu – in testa la feroce Interahamwe – eliminarono i tutsi casa per casa, scuola per scuola. Non furono risparmiate neppure le chiese: sembrava non ci fosse più alcun luogo dove nascondersi. Anche gli hutu moderati, favorevoli a un compromesso, caddero sotto i colpi di machete dei fratelli di etnia. Cento giorni di incubo durante i quali le tv rilanciavano quasi ogni giorno le immagini dei fiumi rossi di sangue, dei cadaveri ammassati senza sepoltura, delle epidemie di colera.
Il ruolo opaco della comunità internazionale
Ma la comunità internazionale non ritenne di intervenire per fermare il genocidio e anzi il ruolo di molti Paesi, europei compresi, rimane ancora oggi opaco. Il Belgio, che aveva truppe nel Paese, le ritirò. Se ne andarono anche la maggioranza dei caschi blu di stanza in Ruanda. Gli americani, reduci dall’umiliazione in Somalia dell’anno precedente, non avevano alcuna voglia di intervenire in un’altra guerra africana dagli esiti imprevedibili ed erano determinati a non rischiare di tornare a casa con nuove ‘body bag’ da riconsegnare alle famiglie.
La Francia, alleata del governo hutu del defunto Habyarimana, si limitò – almeno formalmente – ad evacuare i suoi cittadini. Ma le responsabilità di Parigi rimangono da chiarire e il presidente Emmanuel Macron ha nominato pochi giorni fa un comitato di esperti per indagare sulle reali dinamiche dei fatti. Secondo l’analista britannica Linda Melvern, citata dalla Bbc in una accurata ricostruzione di quegli anni, il ruolo d’Oltralpe non fu neutro: “All’epoca il governo francese aveva 47 uomini infiltrati nell’esercito ruandese, che giocarono evidentemente un ruolo notevole nel genocidio”.
L’ascesa di Kagame e la caccia ai responsabili
I civili tutsi erano inermi, ma le milizie di Kagame, raffinato stratega militare, bene armate e sostenute dall’Uganda conquistarono il territorio metro per metro fino ad arrivare a Kigali il 4 luglio 1994. Il contro esodo di due milioni di hutu in fuga verso l’allora Zaire fu biblico. Nessuno sa quante furono le vittime hutu della resa dei conti, che Kagame ha sempre negato. Certamente il nuovo uomo forte del Ruanda, vicepresidente e poi, dal 2000, presidente, sapeva come muoversi e l’onda lunga del genocidio ruandese mutò gli equilibri nell’area. Dal nuovo governo di Kigali arrivò un sostegno a tutto campo ai ribelli che in Zaire lottavano contro Mobutu Sese Seko, alleato degli hutu. Due anni dopo, nel ’96, il padre padrone da oltre trent’anni al potere a Kinshasa fu rovesciato e, con la benedizione di Kagame, Laurent Kabila si installò a capo del Paese di cui volle anche cambiare il nome in Repubblica Democratica del Congo.
In Ruanda, la caccia ai responsabili dei massacri passò dalle armi ai tribunali: quello internazionale, istituito dall’Onu ad Arusha in Tanzania, e quelli dei villaggi, i ‘Gacaca’, incaricati di individuare i colpevoli, fare chiarezza, ma anche di portare avanti tentativi di riconciliazione. Almeno 10 mila sospetti autori di stragi morirono nelle prigioni prima di arrivare a processo. Ma la vittoria di Kagame, che non è forse un campione di democrazia, fu completa. E il 98,63% di consensi ottenuti nelle elezioni del 2017, le ultime, confermano che a 62 anni il combattente spietato dall’eloquio pacato e dall’aria da intellettuale timido non ha rivali, forte di un impressionante crescita economica e della trasformazione di quel Paese intriso di sangue in un hub tecnologico all’avanguardia dove lui è il primo ad essere di casa sui social.