Nato: 70 anni di successi e sfide e una crisi di mezza età
Un’alleanza politico-militare che dura strutturalmente da 70 anni è qualcosa di più unico che raro nella storia dell’Europa. Se nello stesso tempo quasi triplica i suoi membri riconciliando 30 ex nemici in alleati, e intavola altri 40 partenariati dal Marocco al Kazakhstan, c’è qualcosa di profondo e positivo su cui riflettere nel 70esimo anniversario dalla fondazione della Nato.
La pace in Occidente, ieri oggi e domani
Il 4 aprile 1949 12 Stati dell’Occidente di allora firmavano a Washington un breve trattato, un paio di pagine e 14 articoli, che aveva due obiettivi ben chiari, strutturali e di lungo periodo. In primis “Peace in the West”, ovvero la pace tra i Paesi dell’Europa e del Nord America che si erano combattuti in due guerre mondiali in meno di 30 anni, o meglio in una guerra civile europea lunga tre decenni. Attraverso l’integrazione militare, diplomatica e politico-strategica in ambito Nato, si volevano riconciliare i nemici e far sì che i Paesi europei non ricorressero più alla guerra per decidere chi dovesse avere l’egemonia sul Vecchio Continente, delegandola di fatto alla superpotenza cresciuta nel Nuovo Mondo.
Settant’anni dopo, il problema della pace in Europa si continua a porre, e gli Stati Uniti continuano ad essere parte della soluzione, ovviamente in modo diverso da allora. La Nato è infatti l’unica organizzazione regionale a riunire quasi tutti i Paesi dell’Ue di vecchia e nuova (o futura) adesione, il mondo anglosassone che ne è fuori – Usa, Canada – o ne potrebbe uscire come il Regno Unito, e una Turchia perennemente in bilico tra Occidente e Medio Oriente. In questo modo, l’Alleanza Atlantica svolge – o può svolgere – il ruolo di piattaforma per un dialogo strategico, informato da una struttura militare e diplomatica integrata, e unica al mondo, che può poi attuare in un orizzonte di medio-lungo periodo alcune delle decisioni prese. Un dialogo che resta cruciale per mitigare e gestire le divergenze, per ricercare compromessi e soluzioni win-win, smorzando e contenendo spirali nazionaliste e centrifughe che corrono anche oggi il rischio di innescarsi, da Ankara a Varsavia, da Londra a Washington.
La Nato è infatti un’ancora di stabilità che ha permesso e favorito, tra le altre cose, la riunificazione consensuale della Germania, la transizione democratica e pacifica nei Paesi europei ex comunisti, l’allargamento dell’Ue, limitando al tempo stesso la divergenza tra quest’ultima e la Turchia nei lunghi anni in cui i negoziati di adesione di Ankara all’Unione sono finiti in un vicolo cieco. Si tratta di un’ancora di cui l’Europa e l’Ue hanno ancora fortemente bisogno per molto tempo per assicurare la propria sicurezza e stabilità, così come ne hanno bisogno gli Stati Uniti e la Turchia – sebbene in molti tendano a tacerlo o a dimenticarlo.
La pace dell’Occidente, dalla Russia a terrorismo e cyber
L’altro obiettivo della Nato durante la Guerra Fredda era la “Peace of the West”, ovvero la deterrenza rispetto ad un probabile attacco militare sovietico ai confini dell’Occidente e la difesa di questi ultimi con armi convenzionali e nucleari nel caso tale deterrenza fosse stata messa alla prova. L’articolo 5 del Trattato di Washington sulla difesa collettiva è in questo senso la pietra angolare della Nato e della sicurezza euro-atlantica. Una pietra angolare su cui è stata costruita anche la parte militare della risposta agli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, unico caso nella storia Nato in cui tale articolo è stato invocato e attuato tramite le successive missioni in Afghanistan per privare Al Qaeda ed i Talebani di un rifugio sicuro da cui preparare altri attacchi.
Non a caso, davanti al nuovo quartier generale Nato di Bruxelles sono esposti un troncone del Muro di Berlino e uno delle Torri Gemelle di New York, a ricordare quanto l’Occidente debba proteggersi da minacce esterne mutevoli o ricorrenti. Protezione che resta un obiettivo fondamentale ancora oggi, e che solo la Nato può perseguire in modo credibile, efficace, efficiente e sostenibile, specie rispetto all’aggressività di Mosca. Dopo l’invasione militare russa della Crimea nel 2014, la Nato è stato infatti il perno su cui si è costruita la linea difensiva dalle Repubbliche Baltiche alla Romania che ha scongiurato il rischio di colpi di mano russi in quei Paesi, membri dell’Alleanza Atlantica quanto dell’Ue, più bisognosi di rassicurazione.
Nel 2016 la Nato ha anche riconosciuto il dominio cibernetico come un nuovo campo di operazioni, in cui sviluppare capacità e tecnologie per proteggere la sicurezza nazionale degli Stati membri anche da attacchi provenienti da questo nuovo fronte. Protezione che si è aggiunta, senza sostituirle, a quella convenzionale, missilistica e nucleare – con quest’ultima che vede nella Nato l’unico meccanismo politico-istituzionale con cui i Paesi europei possono usufruire dell’ombrello di sicurezza nucleare statunitense con un minimo di voce in capitolo al riguardo.
In entrambi i casi – pace in Occidente e del Occidente – la Nato continua a funzionare come una “polizza di assicurazione” sulla sicurezza euro-atlantica, che, come ogni polizza, in tempi tranquilli è vista come un costo, ma in caso di crisi, minaccia o incertezza, come una salvezza. Considerata la rapidità dei cambiamenti globali ed il proliferare di conflitti o instabilità in Europa e nel suo vicinato, si tratta di una polizza da mantenere in piedi con il relativo investimento politico ed economico nelle rispettive forze armate nazionali. O di una polizza cui accedere, come hanno fatto volontariamente negli ultimi 30 anni gli Stati europei usciti dall’esperienza del franchismo, del Patto di Varsavia, dell’Unione Sovietica e della guerra civile jugoslava.
La Nato strumento flessibile di gestione delle crisi
Dagli Anni 90 in poi, oltre ad essere la polizza di assicurazione dell’Occidente, la Nato è stata uno strumento fondamentale per perseguire due obiettivi impensabili nel ’49, e particolarmente cari all’Italia. In primo luogo, la gestione di crisi fuori dal territorio degli Stati membri, attraverso missioni internazionali di prevenzione, come in Macedonia nel 2001, di intervento rapido, ad esempio in Kosovo nel 1999, e di prolungata stabilizzazione, in primis nei Balcani e in Afghanistan ma anche nel Golfo di Aden rispetto alla pirateria e nel Mediterraneo in funzione anti-terrorismo.
Oggi questo strumento si sta adattando ad un mondo al tempo stesso più multipolare, con potenze regionali in grado di scoraggiare un intervento occidentale, e in cui gli elettorati statunitense ed europeo sono più restii a rischiare vite umane e risorse economiche se non vi è una diretta minaccia alla sicurezza nazionale. Vista tale realtà, l’adattamento della Nato consiste nel puntare sull’addestramento ed il sostegno alle forze armate locali nei Paesi partner, in Iraq piuttosto che in Giordania, affinché si facciano carico loro stessi della sicurezza e stabilità di aree connesse geo-politicamente con l’Europa e il Nord America, e in primo luogo con l’Italia in quanto perno del fianco sud della Nato.
I partenariati come moltiplicatore di influenza e stabilità
La costruzione delle capacità di difesa locali è strettamente legata al secondo nuovo obiettivo perseguito dalla Nato negli ultimi tre decenni, ovvero la strutturazione di partenariati militari, diplomatici e politici con i Paesi di queste regioni, dall’Europa allo spazio ex sovietico, al Nord Africa e Medio Oriente – fino alle democrazie del Pacifico -. Tra questi, i più importanti sono sicuramente quello con Mosca, elevato al massimo livello politico-istituzionale nel 2002 con la creazione nel Vertice di Pratica di Mare del Consiglio Nato-Russia, e quello con l’Ue che ha trovato nuovo slancio nella dichiarazione congiunta di Varsavia del 2016. Non va però dimenticato, specie da una prospettiva italiana, che il Dialogo mediterraneo è da 25 anni l’unico forum che vede sedere allo stesso tavolo politico-militare sette Paesi arabi e Israele insieme ai membri Nato.
La dimensione politica della Nato è cresciuta negli ultimi tre decenni insieme al suo respiro globale, costituendo un moltiplicatore di influenza per i suoi membri e di proiezione di stabilità oltre i confini dell’Alleanza. Potenziale oggi frenato dalle divisioni interne alla Nato, rispetto alle priorità da dare al fianco est piuttosto che a quello sud, così come riguardo a specifici Paesi partner verso cui le posizioni degli Alleati divergono, come è il caso di Francia e Italia rispetto a Libia e a Tunisia.
Le divisioni e la sfiducia da superare
Sono proprio le divisioni interne all’Alleanza le più grandi sfide non solo alla sua sopravvivenza, ma alla pace, sicurezza e stabilità nel e del Occidente. Divisioni tra Stati Uniti ed Europa sul programma nucleare iraniano e sul commercio internazionale, e tra gli europei sulla strategia nei confronti della Russia e della Cina. C’è solo una minaccia peggiore di un Occidente diviso, ed è un Occidente che non crede più in sé stesso, nei suoi valori – incluso l’ordine liberale internazionale che ha costruito – e nella necessità di difenderli anche con la forza. L’Amministrazione Trump è in un certo senso il sintomo più grave di questa sfiducia dell’elettorato americano, che pure serpeggia in maniera diversa nei Paesi europei rispetto all’Ue più che alla Nato.
Di fronte a ciò, fermo restando la presa d’atto di un mondo oggi più multipolare e meno occidentale di un decennio fa, e la necessità quindi di un maggiore realismo e pragmatismo da parte euro-atlantica, ricordare i 70 anni della Nato dovrebbe essere anche un modo per ricordare i valori, gli interessi e gli obiettivi strategici che accomunano e legano i Paesi occidentali di oggi. E per non dimenticare che se è stato possibile costruire in Europa uno spazio di pace e di sicurezza a partire dalle macerie della Seconda Guerra Mondiale e all’ombra della Guerra Fredda, è certo possibile mantenerlo, proteggerlo e ampliarlo oggi in una situazione molto meno drammatica. La crisi di mezza età per la Nato è arrivata a 70 anni, e come tale può e deve essere superata.