IAI
Politica di difesa

Italia: missioni internazionali e sicurezza nazionale

29 Apr 2019 - Alessandro Marrone, Michele Nones - Alessandro Marrone, Michele Nones

Nell’ultimo anno sta crescendo la disattenzione per la partecipazione italiana alle missioni internazionali, volte a mantenere o ripristinare sicurezza e stabilità nelle aree di crisi che hanno una rilevanza diretta per l’Italia. E’ un altro brutto segno in un Paese dove la cultura della difesa e della sicurezza stenta a radicarsi.

Se i militari fanno i supplenti
La prima ragione di tale disattenzione è legata alla spinta politica a concentrare l’attenzione della difesa su problemi interni che sono in realtà competenza di altri corpi dello Stato e amministrazioni pubbliche. L’avvenuto sorpasso fra militari impegnati in operazioni sul territorio nazionale rispetto a quelli impegnati nelle missioni internazionali ne è, insieme, la testimonianza e, in parte, la causa. Così come l’esasperato e continuo richiamo all’impiego delle Forze Armate in compiti civili, trasformando in emergenze le carenze o i cattivi esempi di malfunzionamento di altre Amministrazioni pubbliche civili (nazionali, regionali e comunali).

Se i militari vengono visti come poliziotti, guardiani notturni, soccorritori,  vigili urbani, netturbini o impiegati, più che come specialisti in difesa, si finisce col rendere secondario il loro impiego nelle aree di crisi, e soprattutto con lo snaturare la funzione assegnata loro dalla Costituzione italiana.

Il controllo dei confini non basta
Una seconda ragione del disinteresse per le crisi al di fuori del territorio nazionale, che pur incidono sugli interessi italiani, può essere individuata in una diffusa spinta all’isolazionismo come risposta ai problemi creati dalla globalizzazione. L’esemplificazione è data dall’enfasi sui ‘muri’, negli Stati Uniti come in Europa o in Medio Oriente. Spesso ci si illude che blindando i confini i problemi possano restare dall’altra parte.

Non occorre essere profondi conoscitori della storia per ricordarsi che il Vallo di Adriano o la Muraglia Cinese non hanno impedito la fine dei rispettivi grandi imperi. Così come durante le due guerre mondiali non sono servite nemmeno le possenti linee difensive costruite in Europa per tenere la minaccia fuori dai confini nazionali. Ciò non significa che non servano un controllo e una difesa di questi ultimi, ma che non bastano. Tanto meno quando, non essendo (fortunatamente) in guerra, ma in un mondo globalizzato che vede (purtroppo) minacce asimmetriche e ibride, la difesa passiva non è sufficiente a tutelare la sicurezza e gli interessi nazionali.

Inoltre, il controllo dei confini marittimi è più difficile, perché, a differenza di quelli terrestri, respingere l’ingresso può diventare una condanna a morte per quanti sono in mare. Una significativa esperienza al riguardo è stata fatta proprio dall’Italia già negli Anni Novanta, dopo la caduta del regime comunista a Tirana. Di fronte ad una fuga di massa di migranti e profughi dall’Albania (cittadini albanesi e non), l’Italia decise il blocco navale e nel 1997 il tentativo dei trafficanti di esseri umani di forzare il blocco imposto dalla marina militare italiana portò all’affondamento di un’imbarcazione albanese, provocando oltre cento morti.

La crisi albanese fu, invece, risolta con l’intervento militare di una coalizione internazionale a guida italiana (operazione Alba) e con il successivo sostegno alle forze armate e di sicurezza albanesi con la presenza di militari italiani nei porti e nel territorio del Paese (operazione Allied Harbour e poi Joint Guardian). Un impegno prolungato di stabilizzazione, nel quadro di un più ampio approccio civile e militare, Nato e Ue, all’Albania e alla regione dei Balcani in generale, che ha dato i suoi frutti nel medio periodo affrontando le cause strutturali del fenomeno migratorio.

La delicata gestione delle esportazioni militari
Infine, quanto a politica di difesa, vi è oggi in Italia una diffusa confusione ideologica che sembra accomunare i sostenitori di un certo sovranismo isolazionista, col conseguente disinteresse e disattenzione per quanto avviene al di fuori dei propri confini, e quelli della “non interferenza”, col conseguente rifiuto tout court delle missioni internazionali nelle aree di crisi e delle esportazioni militari.

Quest’ultimo tema è particolarmente delicato perché chiama in causa valori etici e realismo politico, imponendo di trovare un adeguato equilibrio tra i due, e tra etica delle intenzioni ed etica della responsabilità, nella complessa e interconnessa realtà odierna. La politica delle esportazioni di equipaggiamenti militari è uno strumento importante della politica estera e di difesa perché, soprattutto se si sviluppa nel quadro di un accordo governo-governo, consolida i rapporti di collaborazione e interdipendenza tra i due Paesi: mette, infatti, una parte della sicurezza nazionale dell’importatore nelle mani dell’esportatore. Tanto più quando è rilevante e prolungata nel tempo la fornitura degli equipaggiamenti italiani a Stati terzi. 

La politica delle esportazioni in ambito militare è anche uno strumento importante della politica di difesa, perché non si possono mantenere Forze Armate nazionali adeguatamente equipaggiate se non si allarga e prolunga la produzione dei moderni sistemi d’arma, vendendoli anche ad altri Paesi. Il costo unitario di tali sistemi diventerebbe altrimenti proibitivo su scala nazionale e, stante l’assurdità di avere forze armate disarmate, si finirebbe con il doverli acquistare in toto all’estero, perdendo capacità tecnologiche e industriali nazionali e, in ultima istanza, autonomia strategica, politica e militare.

Con questa consapevolezza, tutti i Paesi democratici si sono dati normative di controllo delle esportazioni militari attraverso cui decidere se, cosa, quanto, quando e a chi vendere, con quali garanzie di non-riesportazione, ecc. Non a caso verso certi Paesi si evita la vendita di equipaggiamenti utilizzabili al fine di reprimere le proteste della popolazione civile. Qui bisognerebbe tornare a concentrare l’attenzione italiana perché in questo campo manca nel nostro Paese un livello decisionale politico adeguato che potrebbe favorire una più chiara assunzione di responsabilità.

In questa stessa ottica, pur non potendo impedire ai Paesi clienti di utilizzare gli equipaggiamenti che abbiamo loro fornito, potremmo cercare di esercitare una più forte pressione politica moderatrice, soprattutto con la forza che potrebbe avere l’Unione europea, ricordando però al tempo stesso anche il rischio di “interferire” e di non rispettare la loro indipendenza e sovranità nazionale.

Politica di difesa e opinione pubblica
In conclusione, sia la politica industriale e delle esportazioni sia le missioni internazionali militari sono alcuni degli strumenti che possono e debbono essere utilizzati nel quadro di una politica di difesa nazionale strettamente connessa alla politica estera, da parte dell’Italia come dei Paesi partner Ue e Nato.

In particolare per quanto riguarda gli interventi all’estero, creare condizioni di sicurezza nelle aree di crisi è indispensabile per potere realizzare anche le missioni civili e il sostegno socio-economico che aiutino i Paesi interessati a costruire o ricostruire i loro apparati pubblici e a sviluppare le loro economie, a loro volta premessa indispensabile per migliorare le condizioni di vita della popolazione e stabilizzare il contesto locale e regionale.

Purtroppo questo percorso è accompagnato quasi sempre dallo sviluppo di forme di terrorismo da parte delle forze che hanno perso il controllo di quell’area, o che vogliono impedire il consolidamento di forme statali più moderne e a maggiore caratterizzazione democratica. Questo è avvenuto e avviene ad esempio in Afghanistan, ma, pur con tutti i limiti e gli errori compiuti dalla comunità internazionale (soprattutto nelle fasi iniziali dell’intervento), non ci si può dimenticare quale era la drammatica situazione iniziale durante il regime dei Talebani, e quali rischi comportava per la sicurezza e la stabilità internazionale alla luce degli attentati dell’11 settembre 2001.

Ci sono voluti decenni per rendere maggiormente consapevole l’opinione pubblica italiana che, quando si tratta di sicurezza nazionale e politica di difesa, gli incendi si devono spegnere là dove cominciano e poi si alimentano: cercare di farlo sui nostri confini è molto più difficile, se non impossibile, perché non possono più essere circoscritti e diventano più forti e vasti. Anche per questo è importante continuare a analizzare, spiegare e valorizzare la partecipazione dei militari italiani alle missioni internazionali.