Iran: lo scontro con gli Usa tra sanzioni, politica ed economia
Il 22 aprile l’Amministrazione Trump ha fatto sapere di non volere rinnovare l’esenzione dalle sanzioni concesse ad alcuni Stati, fra cui l’Italia, per l’acquisto del petrolio iraniano, mettendo sotto ancora maggiore pressione Teheran ed esacerbando le relazioni fra i due Paesi. Questa nuova azione statunitense contro la Repubblica islamica rappresenta però solo un nuovo tassello d’uno scontro che è aumentato d’intensità dall’inizio della presidenza di Donald Trump.
Ripercorrendo le tappe della crisi
Nel 2015, l’Amministrazione Obama era riuscita ad elaborare – assieme agli altri maggiori attori globali – un accordo con l’Iran che prevedeva l’interruzione dei tentativi di arricchimento dell’uranio per scopi militari da parte del paese mediorientale in cambio del ritiro delle sanzioni americane nei suoi confronti. Tale accordo, chiamato Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa), è stato uno dei maggiori risultati in politica estera ottenuti dalla precedente Amministrazione Usa e sembrava essere in grado di allentare le tensioni fra Stati Uniti e Repubblica Islamica, ridando al contempo slancio all’economia locale ed aprendo all’economia globale un mercato di 80 milioni di persone e ricco di risorse naturali.
Trump s’è da sempre detto contrario a tale accordo sostenendo l’inaffidabilità del regime di Teheran e venendo in ciò supportato da diversi attori che non hanno mai visto di buon occhio la potenziale riappacificazione. Fra essi troviamo Israele, che con la Repubblica islamica è da sempre in contrasto e che vede l’estensione dell’azione iraniana in Siria come una grave minaccia alla propria sicurezza interna.
Nonostante l’agenzia internazionale per l’energia atomica dell’Onu, l’Aiea, abbia certificato a più riprese il rispetto da parte iraniana dello stop all’arricchimento dell’uranio e l’apertura di tutti i suoi siti al controllo dell’agenzia, l’Amministrazione Trump ha deciso di ritirarsi unilateralmente dall’accordo e, lo scorso novembre, di reintrodurre le sanzioni economiche verso l’Iran.
Le sanzioni imposte dagli Usa sono particolarmente efficaci poiché non si applicano solo ad aziende e persone statunitensi, ma a tutti coloro che utilizzano dollari per effettuare transazioni. Ciò significa che nessuna azienda che effettui scambi con l’Iran ha la possibilità di accedere al mercato statunitense o di utilizzare la moneta. L’Unione europea, forte sostenitrice dell’Iran Deal, ha cercato di strutturare un sistema alternativo per evitare la totale compromissione dell’accordo, l’Instrument in Support of Trade Exchanges (Instex), ma ad oggi non ha riscosso il successo necessario ad evitare la fine del Jcpoa.
Le scelte degli Usa nell’ultimo mese
Due azioni promosse dagli Stati Uniti nelle ultime settimane hanno determinato un acuirsi della crisi: la decisione di inserire le Guardie della Rivoluzione (Irgc) nella lista dei gruppi terroristici e il mancato rinnovo dell’esenzione dalle sanzioni che era stato concesso ad alcuni Stati lo scorso novembre (fra essi, oltre all’Italia, la Cina, la Corea del Sud, la Grecia). A ciò va anche aggiunto che l’Iran è stato colpito, dalla seconda metà di marzo alla metà di aprile, da una serie di alluvioni e conseguenti inondazioni che hanno messo in ginocchio diverse regioni e comportato un enorme sforzo per l’economia locale già fortemente provata da uno stato di recessione e da una inflazione galoppante.
Le scelte operate dall’Amministrazione Trump sono la conseguenza di una strategia messa in essere principalmente dal segretario diSstato Mike Pompeo e dal consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton. In particolare quest’ultimo è considerato uno dei più strenui avversari del regime iraniano. L’idea è quella di mettere l’Iran in una posizione di debolezza per potere rinegoziare l’accordo inserendovi anche ciò che non era presente nel Jcpoa, ossia la limitazione allo sviluppo dei missili a lunga gittata (Intercontinental Ballistic Missiles) per il lancio di testate nucleari e la limitazione delle azioni dell’Iran nell’ambitodella politica regionale del Medio Oriente.
Tali obiettivi nascondono però un malcelato desiderio di qualcosa di più di un semplice negoziato da una posizione di forza: l’attuazione di un regime change nel Paese. L’Iran è infatti, come si accennava, colpito da una grave crisi economica ed inflattiva, oltre che dai disastri naturali delle ultime settimane. Se a ciò si aggiunge il diffuso malcontento e le proteste che hanno recentemente attraversato la Repubblica islamica, è possibile vedere come l’Amministrazione Trump stia sostanzialmente cercando di fomentare il crollo del sistema istituzionale iraniano.
Le conseguenze delle scelte americane
Gli effetti principali delle azioni portate avanti dall’Amministrazione Trump sono sotto alcuni aspetti diversi da quelli sperati. Innanzitutto la maggior parte della popolazione iraniana sembra ormai essere convinta dell’inaffidabilità degli Usa, visto il ritiro dall’accordo e l’imposizione di nuove sanzioni in un momento di crisi forte, tanto da rendere l’Iran inaccessibile anche agli aiuti umanitari destinati alle popolazioni colpite dall’alluvione.
In secondo luogo, la presidenza di Rohani, sostenuta dalle forze moderate iraniane, si trova in forte difficoltà, essendo stata la principale promotrice ed artefice del Jcpoa e trovandosi ora esposta a forti critiche da parte delle forze politiche più intransigenti del panorama iraniano.
Infine, sebbene sia reale e manifesto il malcontento popolare, non è affatto detto che ciò si ritorcerà contro il regime. L’idea che dietro a parte del peggioramento della situazione ci siano le politiche americane è abbastanza diffusa e ciò potrebbe indurre la popolazione ad allinearsi sulle posizioni dei conservatori e del regime, piuttosto che contro di loro.
Con la definitiva chiusura del piccolo sfiatatoio costituito dall’esenzione di alcuni Stati dalle sanzioni, la situazione non potrà che peggiorare. Trump scommette contro il regime, forse dimenticandosi che fino al 2015 la Repubblica islamica è sopravvissuta a imposizioni analoghe e che una politica di regime change ha spesso avuto risvolti negativi per gli interessi americani nella regione.