Venezuela: Guaidó dal concerto di Cucuta al ritorno in patria
Juan Guaidó, l’autoproclamato presidente del Venezuela, è rientrato nel suo Paese lunedì 4 marzo, dopo avere visitato alcuni Paesi dell’America latina, Colombia, Brasile, Paraguay. Dalla frontiera venezuelana, il nostro collaboratore Riccardo Pareggiani ci invia queste cronache di una crisi che pareva sul punto di precipitare e che dà ora l’impressione d’impantanarsi.
12 febbraio: “Abbiamo una data”
“Venezuela, abbiamo una data!”: così affermava il 12 febbraio Juan Guaidó, autoproclamatosi il 23 gennaio presidente venezuelano davanti all’Assemblea nazionale e riconosciuto da più di 50 Paesi della comunità internazionale, annunciando con un tweet un ultimatum al governo di Nicolas Maduro: il 23 febbraio sarebbero scattati al confine con la Colombia i tentativi di fare entrare in Venezuela i contestati aiuti umanitari.
Viveri e medicinali, provenienti quasi esclusivamente dalla UsAid, l’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale, sono stati bersaglio di aspre recriminazioni da parte della Croce rossa internazionale, prima, e delle Nazioni Unite, poi, basate sulla natura propria dell’aiuto umanitario che, in questo caso, assumeva un significato politico altamente destabilizzante per la regione.
23 febbraio: l’incontro di Cucuta
Cucuta è una cittadina al confine nord-est della Colombia con il Venezuela: piccola, solatia, senza pretese. Ma che stesse per assumere una valenza internazionale si poteva intuire dal volume di richieste di alloggio che gli hotel della zona stavano ricevendo. Il 23 febbraio, Cucuta sarebbe stata teatro di una gigantesca operazione mediatica.
Sulla ‘tarima de prensa’ (podio della stampa) del Puente de Tienditas, che collega i due Paesi, si sono incontrati con Guaidó i presidenti colombiano, Ivan Duque, e cileno Sebastián Piñera. L’obiettivo era esercitare sul regime di Maduro un’ultima pressione prima di far passare i camion carichi di aiuti sui quattro ponti che uniscono i due Paesi.
L’evento era seguito dall’Organizzazione degli Stati americani (Osa), da rappresentanti della Chiesa cattolica ed evangelica e da numerosi deputati provenienti da tutto il SudAmerica. Ha fatto il giro del mondo la foto dall’alto di uno dei quattro ponti su cui Maduro aveva fatto piazzare enormi cisterne ancorate a terra, per bloccare preventivamente l’accesso al Venezuela.
La conferenza stampa di Tienditas è stata un capolavoro mediatico: giornalisti da ogni angolo del mondo hanno ascoltato i tre presidenti; un corteo di venezuelani in camicia bianca; rose bianche; camion giganteschi tirati a lucido, strombazzanti e fatti avanzare con grande solennità. Ma poi il primo camion, invece di svoltare a sinistra e imboccare il ponte di Tienditas, ha girato a destra. E tutti si sono chiesti quale fosse la strategia dei tre presidenti, in particolare di Guaidó.
La giornata era iniziata in maniera tranquilla, ma fin dalla mattina sul luogo la tensione era palpabile. Due ore sotto al sole, poi diventate tre; e finalmente sono comparsi i disertori dell’esercito di Maduro, appartenenti alla Guardia nazionale bolivariana (Gnb).
Dal VenezuelAid agli scontri violenti
Un importante antefatto è stato il concerto organizzato a Cucuta il 22 febbraio, il giorno prima dello scadere dell’ultimatum sugli aiuti. Quasi 200.000 persone hanno assistito all’evento sponsorizzato da Richard Branson, in cui sono stati invitati a esibirsi alcuni tra i più importanti nomi della musica latinoamericana. Nella folla dei partecipanti, quasi 20.000 erano i venezuelani che hanno attraversato il confine con pochi soldi in tasca per seguire il concerto e passare una notte all’addiaccio.
Il 23 febbraio, al mattino, arriva però la notizia della rottura delle relazioni diplomatiche tra il Venezuela e la Colombia e la chiusura totale e militarizzata delle frontiere. I più fortunati hanno i soldi per un alloggio negli alberghi del centro, ma per la maggioranza l’unica soluzione è la strada, chi sa per quanto.
Cucuta è in una posizione strategica, perché collega i due Paesi attraverso quattro ponti: il ponte internazionale Simon Bolivár, il ponte di Tienditas, il ponte Francisco de Paula de Santander (Ureña) e il ponte de la Unión. Ponti solidi e – almeno due di essi – molto larghi.
Quando l’attenzione si sposta dal ponte di Tienditas al Simon Bolivár, dove erano nel frattempo arrivati i camion, la situazione precipita di colpo. Da una parte, in territorio colombiano, i manifestanti iniziano a spingersi sul ponte; dall’altra parte la polizia bolivariana, nervosa, serra i ranghi e si prepara allo scontro frontale con quella che lo stesso Guaidó aveva soprannominato “la avanlancha humana”.
Quattro giorni di scontri durissimi
Avanzavano, i manifestanti, intonando slogan volti a fare disertare i membri della polizia bolivariana. Con le bandiere e le rose bianche in mano avanzavano fino ad arrivare a meno di 50 metri dalla polizia venezuelana, appoggiata dai cosiddetti ‘colectivos’, gruppi di paramilitari molto pericolosi, galeotti e mercenari al soldo del governo di Maduro.
Di lì al caos è stato un attimo: ha iniziato a volare di tutto , la polizia bolivariana ha reagito sparando lacrimogeni e pallottole di gomma, anche cartucce lacrimogene modificate (potenzialmente letali).
Nella confusione generale e dopo uno scambio di lacrimogeni e molotov, i due camion che erano stati spinti fino al margine del ponte in territorio venezuelano hanno preso fuoco. Stessa sorte è toccata ai camion che si stavano spingendo verso il Venezuela sul ponte di Ureña.
A quel punto la battaglia si è inasprita e la situazione è sfuggita completamente al controllo. Ne sono scaturiti quattro giorni di scontri durissimi, che faranno numerosi feriti nelle fila degli oppositori di Maduro in territorio colombiano – e quattro morti al confine tra Venezuela e Brasile -. Tra le fila dell’esercito e della polizia venezuelana si contano 300 disertori.
Il giorno dopo, Juan Guaidó e la delegazione internazionale che lo seguiva volano a Bogotà per partecipare, lunedì 25 febbraio, al vertice del gruppo di Lima, composto da 12 Paesi del SudAmerica che vogliono fare fronte alla crisi venezuelana. L’autoproclamato presidente se n’è andato senza lasciare indicazioni alle migliaia di persone cui aveva chiesto di radunarsi sopra e sotto i ponti, di spingere gli aiuti, di subire la repressione del governo di Maduro, di dormire per strada e di credere in qualcosa che non fosse solo ed esclusivamente una mossa politica suggerita da Washington.