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Riflessi nei conflitti mediorientali

MO: Golan, che accade ora che per Trump è israeliano

29 Mar 2019 - Ludovico De Angelis - Ludovico De Angelis

Con un tweet, il presidente statunitense Donald Trump ha affermato la scorsa settimana che è giunto il momento che gli Stati Uniti riconoscano le alture del Golan siriane – area collocata nel nord-est del Paese ed occupata da Israele dalla Guerra dei Sei Giorni (1967) -, come lembo di terra sottoposto alla potestà del governo israeliano.

Le implicazioni sono al momento ancora incerte, gli effetti futuri di questa mossa si potranno comprendere soltanto fra alcuni mesi. Ciò che è certo tuttavia, è che “se la politica e la diplomazia si preoccupano spesso dell’immediato, del breve periodo, esse non possono scampare alle conseguenze che le loro stesse azioni imprimono alla realtà in un lasso di tempo più ampio” (Albrecht-Carrié). Ecco perché la decisione si riverbererà ben al di là della regione mediorientale.

Le implicazioni sui rapporti tra Usa e Russia
Un primo immediato esempio è rappresentato dalle implicazioni che questa decisione avrà nei rapporti tra Stati Uniti e Russia. Mosca ha condannato la mossa, affermando in maniera ambigua come questa sia contraria alle “decisioni delle Nazioni Unite”: pur nel gergo fatto di sottigliezze e tutto da interpretare quale risulta essere talvolta quello diplomatico, saltare agli occhi il fatto che Mosca si sia astenuta dall’affermare il passo “contrario al diritto internazionale”, il che l’avrebbe pronto esposta a un’evidente ondata di ripercussioni, a causa della parallela controversia giuridica relativa all’illegalità dell’annessione alla Russia della Crimea. Gli Stati Uniti, però, rischiano implicitamente di legittimare altre annessioni.

Pur nel concetto esteso di sicurezza spesso brandito da Israele, che raramente ne definisce i limiti, soprattutto quelli ultimi ed onnicomprensivi, lasciando sovente spazio a formule criptiche, le alture del Golan rivestono un’importante funzione di tutela della sicurezza dello Stato ebraico, anche data la sua modesta estensione geografica.

La sicurezza per Israele
Nella logica di Tel Aviv infatti, il Golan è una delle zone ‘cuscinetto’ che interpone una sorta di territorio franco tra sé e l’avversario, dal quale Tel Aviv può sia studiarne le mosse, che prevenirne eventuali attacchi. Contestualmente, si può trovare una logica simile nell’occupazione israeliana delle fattorie di Shebaa libanesi e, di fatto, nella posizione delle forze Unifil, sempre nel sud del Libano, oppure nella “no-go zone” di 100 metri all’interno della Striscia di Gaza, nella quale è stato interdetto il transito.

Altri esempi si trovano nel recente passato. L’occupazione del Sinai a seguito della Guerra dei Sei Giorni (culminata con il ritiro completo delle forze israeliane solo a seguito degli accordi di Camp David del 1978) è emblematica. Queste sono considerazioni strategiche, o “implicazioni geopolitiche”, molto importanti, le quali tuttavia non devono essere considerate in via esclusiva.

Israele, infatti, può contare sul supporto militare statunitense, riaffermato due anni fa con la decisione di stabilire la prima base aerea americana in territorio israeliano (una mossa che, pur in linea con la narrativa apertamente ‘pro-israeliana’ dell’Amministrazione Trump – stucchevole, per alcuni osservatori, a causa della sua pedissequa quanto ‘automatizzata’ reiterazione – sembra avere tutti i connotati di un’operazione anti-Russia, attore non più ai margini del bacino orientale del Mediterraneo). E può inoltre contare su un arsenale atomico, nel quadro della sua strategia di Amimut (opacità) e d’uno sviluppo proprio tecnologico-militare d’avanguardia.

Le ragioni del riconoscimento
Avallando l’occupazione sino a spingersi a legittimare l’acquisizione con l’utilizzo della forza del territorio di un altro Stato, gli Stati Uniti hanno proseguito nella loro politica di sostegno incondizionato alle politiche della destra israeliana, che – dopo aver ottenuto da parte di Washington il riconoscimento di Gerusalemme come “unica ed indivisibile” capitale dello Stato ebraico– hanno messo ancor di più a rischio gli equilibri politici, già precari, nell’area dell’ex Palestina mandataria.

Le elezioni che si svolgeranno a breve in Israele spiegano in buona parte il tempismo di questa decisione. In questo modo infatti, il leader del Likud e premier Benjamin Netanyahu può mostrare la sua abilità di strenuo difensore dei diritti di Israele, in un dibattito pubblico reso infuocato da alcune sue affermazioni imprudenti, secondo cui, pur essendo Israele uno Stato democratico che rispetta i diritti delle minoranze, esso appartiene soltanto al popolo ebraico e a nessun altro.

Nonostante ed oltre a ciò, la mossa del Golan va anche rapportata all’imminente presentazione del “deal of the century”, ovvero l’accordo ultimo, di matrice statunitense, sul futuro dei due popoli, israeliano e palestinese, che dovrebbe definire una cornice giuridico-politica di convivenza tra le due realtà e che verrà svelato nei prossimi mesi.

Perciò, il riconoscimento di Gerusalemme, la strategia di “massima pressione” statunitense nei confronti dell’Iran, l’abbandono del Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa), nonché l’annuncio giunto alla fine dello scorso anno da parte di Washington (che ne rappresenta il maggior donatore) del taglio dei fondi all’Unrwa– l’Agenzia Onu che si occupa della protezione dei rifugiati del conflitto arabo-israeliano del 1948 – e ora il riconoscimento delle alture del Golan costituiscono dati fondamentali nel negoziato che, presumibilmente, avrà inizio entro la fine dell’anno.

Tali decisioni ‘massimaliste’ sono state poste in essere anche al fine di presentarsi al tavolo negoziale in una posizione di estrema superiorità (questo è un vecchio motivo della destra israeliana), al fine di poter raccogliere i maggiori frutti da un eventuale accordo.

La questione legale
Il diritto internazionale è molto chiaro in proposito. Innanzitutto, il riconoscimento è un mero atto politico, discrezionale, il quale non produce effetti giuridici; e ciò vale anche per una grande potenza come gli Stati Uniti.

In secondo luogo, i principi che fondano la moderna comunità internazionale non legittimano le acquisizioni territoriali tramite l’utilizzo della forza (Corte internazionale di Giustizia 2004, risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite 2625.

Da ultimo, poi, le pretese che l’acquisizione sia da considerarsi “sanata” e quindi legale a causa della guerra difensiva che ha combattuto Israele al momento di conquistare il Golan, o a causa della durata dell’occupazione, non hanno validità giuridica, nella misura in cui ad essere tutelato è un principio di ius cogens del diritto internazionale, ovvero, l’integrità territoriale dello Stato siriano, che deriva dall’articolo 2.1 della Carta delle Nazioni Unite sull’eguaglianza sovrana fra Stati.