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Ricordi da capo di Stato Maggiore

Kosovo: vent’anni dopo, l’Operazione Nato Allied Force

14 Mar 2019 - Mario Arpino - Mario Arpino

Venti anni fa, nella notte del 24 marzo 1999, su Serbia, Montenegro e Kosovo si scatenava la potenza di fuoco di Allied Force, nome in codice dell’operazione aerea con cui la Nato si riprometteva di punire il presidente serbo Slobodan Milosevic e di fare cessare la violenza dei suoi paramilitari e della polizia sulle popolazioni kosovare di etnia albanese e rom. Da allora,  sono accaduti così tanti avvenimenti – compreso l’attacco alle Torri Gemelle dell’11 Settembre 2001 – da fare sembrare l’inizio del 1999 un tempo assai remoto.

Eppure, come succede quando si vivono gli eventi in diretta, le immagini restano fresche nella memoria. Anche nei particolari. Ero allora ai primi mesi di esperienza quale capo di Stato Maggiore della Difesa, dopo quasi quattro anni al vertice dell’Aeronautica militare. Tante questioni importanti stavano maturando e altre ancora erano nell’aria. A tutto avremmo dovuto far fronte, al solito, con un governo sorretto da una maggioranza precaria, spesso minacciata persino al suo interno e, sul piano militare, con il treno in corsa di una ristrutturazione profonda.

I colloqui si arenano nel castello di Rambouillet
Sul piano della politica estera, era in atto il braccio di ferro tra Milosevic e l’Occidente. Seguivamo ora per ora l’andamento dei colloqui attraverso i resoconti lampo stilati dalla bravissima Laura Mirachian, allora ministro plenipotenziario, assistita per gli aspetti militari dal generale Vincenzo Camporini, allora responsabile del settore politica militare dello Stato Maggiore della Difesa.

kosovo
Il generale Clark e il generale Arpino

Ma a Rambouillet gli eventi andavano male e, pur tra saltuari sprazzi di speranza, c’era già nell’aria la cupa ineluttabilità della guerra. La conferma, se pur ce ne fosse stato bisogno, mi venne da un colloquio personale con il generale Wesley K. Clark, il Saceur (Supreme Allied Commander in Europe della Nato) passato a salutarmi in via XX Settembre. Dopo l’ esperienza dell’operazione Deliberate Force sulla Bosnia, dove, attraverso l’alternanza di attacchi aerei limitati e azione diplomatica, si era giunti agli accordi di Dayton, si era radicata nella Nato la convinzione che la stessa tattica avrebbe funzionato anche con i serbi.

Lo stesso Clark mi parve convinto che, dopo una prima serie di attacchi efficaci e mirati, Milosevic sarebbe tornato al tavolo delle trattative con più miti consigli. Personalmente, essendo nato sul confine orientale e conoscendo la controparte, non potevo che essere di parere diverso. Ricordo di aver espresso tutte le mie perplessità, ma senza riuscire a incidere sulle convinzioni di Clark.

Il ritorno della guerra in Europa
Conoscevo nel dettaglio la pianificazione della campagna aerea, ma personali esperienze raccolte nel 1991 in Iraq mi dicevano che, comunque andasse, difficilmente si sarebbero potuti mantenere i tempi previsti da Clark. Secondo i piani, oltre trecento velivoli alleati erano già schierati sulle nostre basi: Javier Solana, allora segretario generale dell’Alleanza atlantica, aveva avuto dal Consiglio atlantico una cambiale in bianco e aveva già predisposto l’ordine di attacco, che a Rambouillet pendeva sulle teste dei delegati come una spada di Damocle. Intimidazioni inutili, perché nella notte del 24 marzo gli eventi comunque precipitarono.

Ricordo le predisposizioni per il piano nazionale di difesa aerea al sud, l’infittirsi degli accordi logistici con gli alleati, l’attività dei reparti della nostra aeronautica, senza sosta per l’impossibilità – dopo l’esodo degli anni precedenti – di avvicendare i piloti dei Tornado per la terza volta in combattimento in questo dopoguerra. L’iniziazione degli Av-8 Plus della marina, le visite alla brigata Garibaldi, schierata in assetto di guerra a Katlanovo, in Macedonia, appena a sud del confine con il Kosovo, accampata per lunghe settimane su siti diradati, ma pronta a muoversi.

E poi le lunghe file di profughi a Kukes e a Morini, gli ospedali da campo, le visite ai campi di sfollati in Albania e in Macedonia, i lunghi colloqui, anche notturni, con il presidente della Repubblica, che all’inizio del conflitto era Oscar Luigi Scalfaro, i meeting ministeriali, gli aggiornamenti continui con il generale Orofino, efficacissimo capo del comando operativo di vertice interforze.

Tutto questo richiedeva continue corse a Bruxelles, relazioni in parlamento e colloqui giornalieri in conferenza criptata con gli altri comandanti – britannico, francese, tedesco, americano e con lo stesso Clark -. Per me significava anche rispondere alla magistratura ordinaria che inquisiva su tutto, ottenere approvazioni politiche sulla parola e in tempo reale, dovere spiegare a chi non capiva, tenere a bada chi aveva capito troppo e fare opera di convinzione su chi dubitava.

Notte in bianco, trascorsa al telefono, per una quasi crisi con i francesi ai margini del Vertice europeo di Colonia, una disputa sanata grazie al successo di una nostra modifica agli obiettivi da battere in Serbia all’alba del giorno dopo. Poi, finalmente, il 13 giugno, la brigata Garibaldi, con alla testa il generale Del Vecchio, entra incruentemente in Kosovo. Inizia un’altra storia, con tante cose belle e brutte da raccontare.

Allied Force: un vero successo?
Al di là della questione umanitaria che – anche se non da sola – ha originato la guerra, oggi è ancora prematuro stabilire se l’operazione Allied Force sia stata un successo strategico o solamente una vittoria militare. Tant’è vero che, anche dopo la dichiarazione unilaterale dell’indipendenza di Pristina da Belgrado, la Nato, dopo vent’anni, si sente ancora obbligata a mantenere truppe in Kosovo, unitamente a un presidio dell’Unione europea. Per la terza volta di seguito, il comandante di questa forza è un generale del nostro esercito.

Sono storie di guerra, di pace, di cultura e di costume non sempre gradevoli da ricordare. Dopo la guerra in Kosovo, assieme al capo della marina sono stato perfino processato – e dopo tre anni assolto – da un tribunale penale ordinario con l’accusa di tentata strage colposa, per un incidente occorso a un peschereccio che pescava a strascico in Adriatico, in area proibita.

Non credo che ad altri miei colleghi di Paesi Nato sia mai capitato o mai capiterà qualcosa di simile.Tuttavia, spero che anche l’esperienza del Kosovo, come tante altre, sia stata e tuttora rimanga vicenda utile almeno a maturare il modo di intendere e di sentire degli italiani.