IAI
Che cosa cambia rispetto al passato

Isis: perché i ‘Foreign Fighters’ devono tornare in Europa

10 Mar 2019 - Ludovico De Angelis - Ludovico De Angelis

Sin dall’inizio della rivolta siriana e in maniera più evidente dalla proclamazione del sedicente Stato islamico (Isis) nel giugno del 2014, tra i cinque ed i sei mila individui, in larga misura cittadini europei, hanno deciso di raggiungere la Siria e l’Iraq principalmente per vivere (e combattere) nei territori controllati dell’organizzazione iconicamente guidata da Abu Bakr al-Baghdadi. I Paesi più esposti a questo fenomeno sono stati la Francia (2000 partenti circa), la Germania (960), il Regno Unito (850), il Belgio (500) e i Paesi Bassi (300). L’Italia ha circa 135 foreign fighters presunti o riconosciuti.

Da una prospettiva europea, al di là della questione prettamente semantica – ovverosia, l’utilizzo del termine “foreign fighter” da parte degli operatori dei media e dei politici europei per descrivere il nucleo di cittadini continentali che hanno deciso di unirsi al sedicente Stato Islamico, quando per “foreign” si intende, di fatto, “belonging or connected to a country that is not your own” (Cambridge Dictionary) -, le sfide poste da questo fenomeno – non un unicum storico, ma tuttavia originale in termini quantitativi ed ideologici – sono molteplici.

L’evoluzione del jihad
Comprendere le dinamiche legate alla radicalizzazione dell’Islam, come affermato dallo studioso Gilles Kepel, in opposizione all’islamizzazione della radicalità, ipotesi difesa principalmente da Olivier Roy e François Burgat, è a tal proposito fondamentale. Troppo a lungo, nel tentativo di comprendere il contesto (pur essendo questo importante), si è perso di vista l’oggetto dell’analisi: ossia, il salafismo. Una corrente teologica propria dell’islam sunnita che si sintetizza in tre linee direttrici (quietista, politica e a carattere jihadista, ovvero, di immolazione violenta) che ne definiscono la ragione sociale e/o politica in quanto elemento di rottura culturale – di “faglia” alla Huntington (concetto, questo, da relativizzare) – rispetto, nel caso europeo, alla società occidentale.

È proprio quest’ultima declinazione violenta, e le sue espressioni concrete nella realtà, ovvero le sue modalità di propagazione – carcere, legami familiari, luoghi di culto (di rado, e quasi sempre non ufficiali), internet, reti sociali – la cui comprensione può ridurre la minaccia alla sicurezza dei Paesi europei; infatti, più che una realtà fattuale, i “lupi solitari” rappresentano un mito mediatico.

Pur riconoscendo la continuità storica del fenomeno jihadista transnazionale di oggigiorno rispetto alle esperienze passate, pur apprezzandone appieno le similitudini, si rischia di non tenere in considerazione i progressi dottrinali compiuti negli ultimi quindici anni dai dogmi salafiti-jihadisti – in breve, l’architettura ideologica che si esplica in un condensato politico-religioso sul quale si fondano – con diverse varianti – le attività di uno spettro di organizzazioni islamiste, tra le quali, Daesh, cioeè l’Isis, ed al-Qaeda in Yemen. È proprio questo cambio di strategia a rappresentare una minaccia potenzialmente maggiore per i paesi europei rispetto al passato.

Tentando di semplificare un concetto complesso come l’evoluzione della dottrina strategica che i teorici jihadisti hanno sviluppato nel corso degli ultimi quattro decenni per dare ciclicamente nuova linfa al movimento (può sembrare paradossale, ma gli attentati dell’11 settembre 2001 furono compiuti da al-Qaeda in un momento in cui il fascino delle organizzazioni jihadiste sunnite era decadente nel mondo musulmano; da qui, la necessità di dare nuovo vigore al movimento), oggi ci si trova verosimilmente alla fine della terza generazione del jihad.

La lezione di al-Suri alla generazione post-Osama
Una generazione nata a seguito di quella di Osama Bin Laden e chiamata così proprio dal suo principale teorico – un ingegnere siriano con nazionalità spagnola, nome di guerra Abu Mus’ab al-Suri, il quale, nel 2005, usufruendo dei mezzi di comunicazione concessi dalla modernità – il World Wide Web – mette in linea un testo dal titolo “Appello alla Resistenza Islamica Mondiale”. In questa riforma, l’eredità di Bin Laden è quella di aver dato l’esempio: “siamo tutti Osama bin Laden” è la frase che si può sentire in qualche – non in tutti (!) – ambiente salafita.

Criticando al-Qaeda per aver attaccato gli Stati Uniti – troppo potenti, troppo lontani-, egli traccia una parabola del jihad dell’avvenire, il cui obiettivo principale è l’Europa (e gli europei) – “ventre molle” dell’Occidente – da colpire organizzandosi secondo un sistema non più piramidale (come quello fatta proprio da al-Qaeda e dal suo principale ideologo, l’egiziano Ayman al-Zawahiri), bensì tramite una struttura de-centralizzata – concentrica – ossia composta da anelli via via più distanti dall’epicentro – il nucleo guida – che funziona da collegio direttivo, ma non sempre da attivo reclutatore e finanziatore (come accadeva per al-Qaeda), per una serie di altre unità man mano più dislocate, con le quali non è necessario sussista un contatto diretto e/o materiale, con l’obiettivo di compiere attacchi spontanei nell’azione, ma non nell’intenzione.

In sostanza, oltre a frammentare i meccanismi operativo-decisionali, al-Suri preconizza che l’addestramento di eventuali reclute jihadiste sarebbe dovuto avvenire in zone limitrofe al Vecchio Continente, per colpirlo negli obiettivi più vulnerabili – non più solo “simbolici” come avvenne l’11 Settembre –, tentando di trascinare le società europee verso una polarizzazione di fatto e, in una elucubrazione avveniristica, verso una guerra civile, colpendo miscredenti, apostati, ebrei.

Così, gli attentati del 2015 contro Charlie Hebdo ed il supermercato della catena “Hyper Cacher”, nonché l’uccisione del poliziotto di fede musulmana “apostata” Ahmed Merabet , compiuti da personaggi grotteschi quali i fratelli Kouachi e Amedy Coulibaly sintetizzano da un lato, come la dottrina di al-Suri sia ancora presente nella teologia jihadista odierna; dall’altro, che tutti i cittadini europei, di qualsiasi estrazione, sono un potenziale obiettivo.

Questa volta è differente
Il capitale ideologico di cui si è accennato, oltre ad essere ancora presente nelle reti jihadiste, è pericoloso; esso delinea infatti una giustificazione ideologica (ed ideale) per l’utilizzo della violenza.  La storia ci indica che l’eredità intellettuale dei pensatori islamisti fondamentalisti– dal precursore del moderno salafismo-jihadista Sayyd Qutb ad Abu Musab al-Suri – è difficile da cancellare; questa si può tuttavia alleviare, e contrastare intelligentemente.

Per questo, i Paesi europei dovrebbero rimpatriare i ‘foreign fighters’ presenti nelle prigioni del proto-stato curdo e in Iraq ed evitare di rompere quel legame giuridico – la cittadinanza – con i combattenti jihadisti europei.  L’esempio di Osama bin Laden, anch’egli privato dal governo saudita di questa (1994), è emblematico e dimostra il fallimento di tale politica.

Scelta coraggiosa – impopolare – quella di rimpatriare i ‘foreign fighters’, i figli ‘perduti’ europei, ma più che mai necessaria per garantire, quanto possibile, la sicurezza del continente europeo.