Elezioni europee: il Ppe, Fidesz e i rischi per la democrazia
Vi è uno spettro che si aggira nell’Unione europea: l’indebolimento della democrazia rappresentativa in alcuni Stati membri. A guidare questo emergente gruppo di Paesi, collocati soprattutto nell’Est Europa, è il premier ungherese Viktor Orbán. È lui che predica apertamente la nascita della “democrazia illiberale”, espressione che a prima vista sembra un ossimoro, ma che di fatto si concretizza in un regime nazionalista, autoritario e razzista (sia anti-semita che anti-islamico, tanto per non fare sconti a nessuno).
Per abbellire questa involuzione democratica, Orbán si propone come combattente europeo in nome della cristianità, neanche fossimo ai tempi delle crociate. Ma proprio questa sua vantata cristianità ha permesso fino a qualche giorno fa al suo partito Fidesz di essere membro a pieno titolo del Partito popolare europeo (Ppe), la maggiore coalizione di forze moderate e cristiane del Parlamento europeo.
La sospensione dei magiari
La presenza del leader ungherese in questa famiglia politica è oggi frutto di grandissimo imbarazzo alla vigilia delle elezioni europee, che si presentano come decisive nella lotta fra partiti filo-europei, da una parte, e nazionalisti, dall’altra. Non si comprende infatti come Orbán possa essere ancora all’interno del Ppe, dopo che il suo governo è stato raggiunto nell’ottobre 2018 dalla richiesta di avvio di una procedura sulla violazione dei principi e dei valori di democrazia e libertà (art. 7 del Trattato), su cui si dovrebbe fondare l’Ue.
Di fronte a questa pre-condanna, invece di recedere dalle sue leggi liberticide, che hanno messo la museruola alla stampa, alla magistratura e alle organizzazioni non governative, il leader ungherese ha in questi mesi intensificato la sua sfida contro l’Ue, attaccando Jean-Claude Junker, cacciando da Budapest la Central European University e definendo “utili idioti” i 13 partiti del Ppe (su un totale di 26) che lo hanno sfidato sul terreno del rispetto dei diritti civili e umani.
In qualsiasi altro partito politico un tale comportamento avrebbe portato all’espulsione immediata. Invece, nella riunione del 20 marzo scorso il Ppe – compresi i 13 partiti che volevano cacciare il leader magiaro – ha votato quasi all’unanimità per una semplice sospensione (190 a favore, solo tre contrari), concordandola paradossalmente con lo stesso Orbán. La spiegazione sta nella componente maggioritaria tedesca del Ppe: la Cdu di Angela Merkel e la Csu della Baviera. Soprattutto la Csu, collocata molto più a destra della Cdu, ha frenato sulle intemperanze di Orbán, perché vi sono in ballo importanti interessi economici tedeschi in Ungheria, dove Audi, Bmw e Mercedes hanno grandi fabbriche. Inoltre, la Csu concorda con Orbán sul fronte della lotta all’immigrazione, diventata anche per i bavaresi una bandiera ideologica per proteggersi dalla crescita dell’estrema destra dell’AfD.
Calcoli pre-elettorali
Più in generale i cristiano-democratici tedeschi e il Ppe hanno paura di perdere i potenziali 13 seggi ungheresi all’interno del futuro Parlamento europeo, dove il Ppe è previsto in calo dagli attuali 217 seggi a 181. In altre parole, nel Ppe sembrano contare di più i numeri che la coerenza ideologica. D’altra parte, Orbán conosce bene i rischi che corre nell’abbandonare la maggiore forza europea, soprattutto nella battaglia che si aprirà nella nuova legislatura sul bilancio comunitario dei prossimi sette anni.
L’Ungheria ha infatti fruito di un enorme finanziamento Ue. Negli ultimi sei anni, Budapest ha ricevuto la bellezza di 29,6 miliardi di euro che ha utilizzato per investimenti pubblici. La crescita attuale del Pil ungherese, pari al 3,6%, è dovuta essenzialmente al flusso di denaro comunitario: gli economisti calcolano che in assenza di quell’aiuto il Pil sarebbe cresciuto di un modesto 1%.
Ed è chiaro che per mantenere questo vantaggio ad Orbán conviene continuare a fare parte del gruppo più numeroso nel Parlamento europeo, altrimenti finirebbe per essere costretto ad allearsi o con la destra di Salvini e Le Pen in un gruppo minoritario, oppure con i conservatori polacchi di Kaczynski. La sua forza, inoltre, sta nell’appoggio che riceve direttamente o indirettamente dai popolari austriaci, croati, sloveni e perfino da Forza Italia.
Tuttavia, le chiavi del suo futuro stanno sempre nelle mani di Cdu/Csu, che ha avuto nel passato uno sguardo più che benevole nei confronti del difficile alleato, tanto da permettergli due anni fa l’orazione funebre al funerale di Helmut Kohl. Ed in effetti è stato proprio Manfred Weber (bavarese della Csu e candidato del Ppe a sostituire in caso di vittoria alle europee l’attuale presidente della Commissione Junker) ad escogitare la formula di compromesso sulla sospensione di Fidesz da tutte le attività e cariche del Ppe. Essa è stata accompagnata inoltre dalla creazione di un “comitato di valutazione'”composto da tre membri che dovrà vegliare sul “pentimento” di Orbán, ma solo dopo le prossime elezioni del Parlamento europeo, a conferma di quanto sia di prioritario interesse il calcolo sui numeri piuttosto che l’orientamento ideologico.
Timidezza e rischio contagio
Questa brutta storia porta con sé alcune considerazioni di fondo. La prima è che di fronte a chiare e ripetute violazioni dei valori democratici in un Paese europeo, la tattica di chiudere un occhio, o tutti e due, è deleteria. Già da tempo Orbán avrebbe dovuto essere emarginato, fino a sospendere l’Ungheria dall’Ue, come previsto dalla procedura di infrazione di cui all’articolo 7 del Trattato di Lisbona. Avere perso tempo per interessi di bottega o per calcoli politici uccide l’immagine democratica dell’intera Ue.
La seconda considerazione è che con le prossime elezioni del Parlamento europeo non è in gioco semplicemente l’equilibrio fra forze pro-europee e partiti nazionalisti, ma la stessa democrazia: non tanto quella dell’Ue, ma quella dei suoi singoli Stati membri, che proprio dal ritorno alla democrazia nel secondo dopoguerra, o dopo il crollo dell’impero sovietico, avevano trovato nel valore democratico dell’integrazione europea la loro àncora di stabilità.
Compromessi e disattenzioni sui valori fondanti della democrazia e della libertà rischiano di costituire l’anticamera della loro involuzione. Il caso ungherese avrebbe dovuto essere considerato con ben maggiore severità e tempestività. Oggi esso rischia di contagiare molti altri Paesi.