Corea: Hanoi, il Vertice un fallimento più per Trump che per Kim
Un fallimento. Non c’è altro termine che possa spiegare l’esito del Vertice di Hanoi tra Donald Trump e Kim Jong-un. O, meglio, un fallimento per gli Usa, perché il leader nordcoreano ha comunque continuato a portare avanti il suo piano di accreditamento internazionale.
Il Vertice è fallito subito. I due leader non hanno trovato l’accordo. Troppo distanti, nonostante il loro incontro fosse stato preparato per tempo e da tempo ed è difficile pensare che le due diplomazie non conoscessero ciascuna i dettagli delle richieste dell’altra parte.
L’Amministrazione statunitense s’affida al ‘faccia a faccia’
Ma, soprattutto la diplomazia americana ai tempi di Trump, ha dimostrato che l’Amministrazione a stelle e strisce preferisce un approccio faccia a faccia a un negoziato preventivo. Un modo rischioso, soprattutto se di fronte hai qualcuno del quale non puoi fidarti del tutto e che ha tutto da guadagnare, anche dal fallimento di un Vertice.
Trump invece è uscito con le ossa rotte, anche se ovviamente la propaganda intorno a lui e lui stesso in conferenza stampa hanno detto il contrario. Si è parlato di condizioni che non era possibile accettare, ma di dialogo che va avanti. Intanto Kim fa la parte di quello che era disposto a dare, di quello che subisce, di quello che si è aperto, di quello che vuole cambiare il Paese.
Il ruolo accresciuto della Cina e di Xi
Lasciando poi al presidente cinese Xi Jinping, l’unico al momento che può in qualche modo ‘controllare’ e sa ‘gestire’ il leader nord coreano, il pallino del gioco. Già perché una Corea del Nord nuclearizzata è prima di tutto un pericolo e un ostacolo per la Cina: sia perché è il maggior partner e in un certo senso garante di Pyongyang a livello internazionale; sia perché lo stato pessimo della economica nordcoreana, con milioni di persone affamante, non fa altro (anche nello sventurato caso di una guerra) che aumentare per la Cina il rischio di vedersi arrivare tantissimi migranti.
Kim ha vinto. Ha dimostrato apertura ed è rimasto in Vietnam a studiare la seconda economia socialista asiatica (dopo quella cinese) con liberalizzazioni e spinte di carattere capitalistico, visitando fabbriche e dichiarando di voler esportare il modello Hanoi nel suo Paese.
Dove s’è arenata la trattativa Trump-Kim
Ma perché si sono arenati i colloqui? Come dicevamo alla vigilia, ci si aspettava qualcosa di concreto. Gli Stati Uniti hanno chiesto la completa denuclearizzazione. E Kim è stato al gioco: ha offerto la chiusura del sito di Yongbyon. E’ qui che si produce il plutonio nord-coreano, è il più importante sito di Pyongyang. Il più importante, ufficialmente, ma non l’unico, ufficiosamente.
La chiusura di questo sito, attivo anche se in alcune parti inutilizzato, che comunque comporterebbe una spesa di oltre 6 milioni di dollari, non toglierebbe a Pyongyang le sue armi nucleari. Almeno, non del tutto. E quando gli americani hanno chiesto lo smantellamento di tutto l’arsenale, anche di quello che rilevano solo i satelliti spia, i nordcoreani hanno fatto muro.
Kim sa bene che il suo arsenale nucleare è l’unica carta che si può giocare a livello internazionale per ottenere quello che vuole. Per ora ha avuto, e non è cosa da poco, il riconoscimento di potenza mondiale stringendo la mano all’uomo più potente del mondo e sedendosi da pari due volte di fronte a lui. Una situazione fino a qualche tempo fa inimmaginabile.
Il baratto non riuscito tra denuclearizzazione e sanzioni
Di contro, i nordcoreani hanno chiesto la totale rimozione di tutte le sanzioni. Trump e i suoi erano disposti a concederne una parziale rimozione. Come detto, è improbabile che le due parti non sapessero sin dall’inizio che cosa sarebbe successo ad Hanoi e quali erano le reciproche richieste, anche se dai due Paesi al termine del Vertice, si è detto tutto e il contrario di tutto.
Il capo negoziatore americano Stephen Biegun ha detto che negli incontri preparatori i nordcoreani si erano impegnati per il completo smantellamento delle loro istallazioni nucleari dietro la promessa di alcune misure americane. Ri Yong-ho, ministro degli Esteri di Pyongyang, ha detto che si era sempre parlato della completa rimozione delle sanzioni internazionali ed è questo il punto di partenza anche per prossimi incontri (semmai ce ne saranno).
Le carte che restano in mano a Trump
Trump non poteva comunque rifiutarsi di incontrare Kim ed è andato ad Hanoi fidandosi troppo del suo carisma e del suo potere di convincimento. Dopotutto, il periodo non è favorevole e il presidente statunitense non si può permettere un’altra falla nelle sue promesse e nella sua credibilità, specie dopo le accuse del suo ex legale Michael Cohen. Trump ha puntato molto sulla relazione con Kim e non potrà accettare una sconfitta.
A questo punto il magnate presidente, anche se da Hanoi esce come sconfitto, ha un’altra carta da giocare: le relazioni con la Cina e la Corea del Sud. Con l’alleato di Seul, che ha aperto un buon canale con Pyongyang, ha più facilità di dialogo; più difficile è la situazione con Pechino, con cui l’inquilino di Pennsylvania Avenue ha alti e bassi, legati in particolare alle promesse elettorali poi attuate di dazi sull’import cinese.
Ma agli osservatori non è sfuggito che la tregua commerciale sui dazi con la Cina, che doveva scadere il primo marzo, è stata estesa sine die la settimana scorsa. Uno strumento in più nelle mani degli Usa per fare pressione sulla Cina perché intervenga su Pyongyang. O uno strumento nelle mani della Cina per tenere in pugno Trump sfruttando l’influenza su Pyongyang?