Brexit: sì al rinvio, ma la palla passa all’Ue
Non c’è due senza tre per Theresa May. E intanto la Brexit rischia il rinvio a giugno. Andando con ordine, nel giro di 72 ore, la Camera dei Comuni ha infatti sancito la bocciatura bis dell’intesa raggiunta dalla premier con l’Ue, respinto e approvato rispettivamente l’emendamento per un secondo referendum e quello per evitare in ogni caso un’uscita senza accordo, concesso un’ultima chance al primo ministro.
Voti che mettono in luce, da un lato, la ferma volontà di uscire dall’Unione e, dall’altro, la paura di Londra del ‘no deal, l’uscita senza accordo. A colpi di emendamenti a catena, è stata così tracciata la linea dell’esecutivo per il futuro prossimo e la strada del Paese a lungo termine. Questa tregua è però insufficiente a placare le tensioni interne al Regno, specie quelle sul confine irlandese.
Via libera all’estensione dell’art. 50
Sul fronte europeo, ancor più del terzo tentativo di ratifica strappato dalla May, che pare però destinato a non concretizzarsi, appare significativo il via libera di Westminster alla richiesta di rinvio breve della Brexit in caso di approvazione del Withdrawal Agreement. Salta dunque la data del 29 marzo e si fa avanti quella del 30 giugno, dopo le elezioni europee di fine maggio.
Si tratterebbe di un semplice posticipo necessario a garantire i tempi tecnici per la ratifica dell’accordo da parte del Parlamento europeo uscente. La neo-eletta Assemblea, priva dei suoi rappresentanti britannici, dovrebbe infatti insediarsi ai primi di luglio. Tuttavia, non c’è niente di automatico.
L’estensione dell’art. 50 del Trattato di Lisbona – quello che regolamenta la procedura di uscita di uno stato dall’Ue – deve essere accettata all’unanimità dai 27 Paesi membri dell’Unione europea: quindi, al Consiglio europeo del 21 e 22 marzo si voterà sul rinvio voluto da Londra. Si terrà conto della durata della dilazione proposta e delle mosse concrete che la May intende fare. E su questo aspetto i leader europei non hanno nascosto il loro scetticismo, nonché una certa irritazione. Qualora tutto filasse liscio, dal 1° luglio il Regno Unito potrà dirsi effettivamente fuori dall’Unione.
Più intricati gli scenari che si aprirebbero nell’eventualità in cui l’accordo venisse di nuovo respinto dalla Camera, quando gli sarà sottoposto. La dilazione dei tempi sarebbe più lunga e in quel caso la Gran Bretagna sarebbe tenuta a partecipare alle elezioni europee. Questa è l’unica clausola posta dai Paesi dell’Unione ai quali spetta pur sempre l’ultima parola. Sebbene il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk si sia mostrato piuttosto accondiscendente sulle richieste d’Oltremanica, l’inconcludente tira e molla degli ultimi due anni costituisce un grosso ostacolo a concedere un’estensione più sostanziosa.
Le altre strade possibili
Legalmente non esistono vincoli in merito al numero di proroghe o al prolungamento delle scadenze, fermo restando che per l’intera durata della fase negoziale rinnovata il Regno Unito continuerà a essere un membro effettivo dell’Ue, con tutti gli obblighi e i privilegi che ne derivano. Se il rinvio dell’uscita, breve o lungo che sia, dovesse essere respinto dai membri dell’Unione, il 29 marzo verrebbe confermato come data del divorzio.
A opporsi a un spostamento lungo della Brexit sono poi i nord-irlandesi del Partito Democratico Unionista, stampella fondamentale del governo May, i quali premono per mettere fine il prima possibile al caos che sta corrodendo il Paese. Nonostante negli ultimi giorni sembri esserci stato un certo riallineamento con le posizioni dei tories radicali, resta irrisolto infatti il capitolo backstop, il tanto discusso meccanismo atto a mantenere un confine aperto tra Eire e Ulster nel pieno rispetto dell’Accordo del Venerdì Santo.
I deputati del Dup hanno pertanto riaffermato la volontà di votare contro qualsiasi accordo che non chiarisca il funzionamento della clausola, soprattutto in merito alla possibilità di recedervi in modo unilaterale, e che non garantisca loro le giuste assicurazioni legali sulla parità di trattamento con gli altri ‘regni’ dell’isola maggiore. Benché la premier sia stata privata di uno strumento di minaccia di cui ha fatto abbondante uso – il ‘no deal’ – per fare approvare il suo accordo, l’unico al momento sul tavolo, non vi è di fatto alcuna certezza sulla possibilità di procedere a un divorzio ordinato.
L’Ulster teme una nuova militarizzazione
La tensione in Irlanda del Nord intanto resta alle stelle. Due nuovi episodi di carattere paramilitare lo scorso 8 marzo hanno fatto riaccendere la paura. Quasi simultaneamente, a Derry e a Belfast due uomini sono stati raggiunti alle gambe da alcuni colpi di pistola e lo stesso è accaduto all’inizio di febbraio sempre a Derry. Azioni che puntano a restaurare un clima di terrore nel Paese da parte di gruppi isolati miranti a esercitare un controllo coercitivo sulla comunità. Il timore perciò è che le organizzazioni paramilitari che avevano dichiarato il cessate il fuoco negliAanni Novanta, rimaste attive nell’ombra negli ultimi vent’anni, possano risvegliarsi e si debba tornare a militarizzare il confine.
Permangono anche le preoccupazioni sul fronte economico da parte del mondo imprenditoriale. Una cinquantina di aziende ha sottoscritto all’inizio del mese una lettera aperta rivolta al Parlamento mettendolo in guardia sul rallentamento in corso dell’economia nord-irlandese, sui danni riportati dalle piccole imprese e sul venir meno degli investimenti vista l’incertezza della situazione.
Alcuni cittadini di Belfast hanno infatti affermato che per quanto il divorzio dall’Unione non sia ancora ufficiale, nei fatti è come se la Brexit ci sia già. E con un Parlamento sospeso da più di due anni, dopo le dimissioni del vice-premier Martin McGuinness per divergenze con l’allora primo ministro Arlene Foster, oggi leader del Dup, è chiaro che in Irlanda del Nord non resti altro che navigare a vista.