Ue: maggio 2019, il voto meno “europeo” di sempre
Le elezioni europee all’orizzonte potrebbero essere le più politicizzate e meno partecipate di sempre; e quello che ne emergerà sarà probabilmente il Parlamento europeo più frammentato di sempre.
Che a una campagna elettorale molto politicizzata seguano elezioni poco partecipate è piuttosto insolito: normalmente alle elezioni nazionali a maggiore politicizzazione corrisponde anche maggiore partecipazione. Il voto europeo di quest’anno sarà inoltre contraddistinto dalla nascita e dalla progressiva ascesa di un nutrito gruppo di partiti nazionalisti ed euroscettici in diversi Paesi dell’Unione, che sono riusciti a riportare il dibattito sull’Europa non soltanto al centro dell’agenda politica, ma anche all’attenzione degli elettori.
Ciononostante, se alle prime elezioni del Parlamento europeo nel 1979 votò il 63% degli elettori e 15 anni più tardi, nel 1994, l’affluenza si era contratta solo di poco, toccando il 57%, nel giro dei successivi 15 anni il tasso di partecipazione è calato di altrettanti punti: ha raggiunto il 43,2% nel 2009, e nel 2014 si è attestato più o meno sulla stessa cifra.
Il declino della coalizione europeista
La scarsa partecipazione alle europee testimonia di come esse siano ancora percepite da elettori e classe politica come elezioni di secondo livello. Più utili cioè a mandare un segnale agli alleati e agli avversari di casa propria, piuttosto che a indicare preferenze politiche per l’intero continente. Nel frattempo, nei singoli Stati membri i cicli politici restano ancora molto poco sincronizzati: quando un Paese va a destra, altri vanno a sinistra; quando uno diventa più euro-scettico, l’euro-scetticismo di un altro diminuisce.
Questo ha avuto storicamente due conseguenze sugli equilibri elettorali nel Parlamento europeo: la costante assenza di un chiaro gruppo politico vincitore e la tendenza a convergere al centro da parte di una ‘grande coalizione’ tra conservatori, socialisti e liberali, moderatamente europeista, che prevale rispetto alle istanze estreme. E questo accade anche quando le diverse elezioni nazionali per il Parlamento europeo portano a risultati molto netti: si pensi al 41% raccolto dal Partito democratico in Italia nel 2014.
Eppure le elezioni del 2019 mettono in luce le grandi tensioni accumulatesi nel corso degli ultimi anni. La ‘grande coalizione’ centrista-europeista, composta dai conservatori del Partito popolare europeo (Ppe), dal centrosinistra dei Socialisti e democratici (S&D) e dai liberali di Alde, perde consensi da tre tornate elettorali. Dopo aver toccato nel 2004 il massimo storico di seggi (78%), oggi ne detiene il 63% e, secondo le proiezioni più recenti, a maggio potrebbe scendere al 54%.
L’attesa contrazione della maggioranza centrista potrebbe però non essere così grande. Innanzitutto perché La République En Marche (LaRem), il partito del presidente francese Emmanuel Macron, a oggi corre da solo e varrebbe un altro 3% dei seggi a disposizione. In secondo luogo perché, nei mesi successivi alle precedenti tornate elettorali, i partiti della maggioranza centrista hanno sempre guadagnato un certo numero di deputati che inizialmente erano stati eletti come indipendenti. Nel 2014, per esempio, la grande coalizione elesse 444 deputati al voto di maggio, ma a questi si aggiunsero poi altri 38 ‘transfughi’ a seguito di trattative post-elettorali.
Le due opposizioni, a destra e a sinistra
Se la grande coalizione piange, le opposizioni non ridono. Il Parlamento europeo ospita due grandi ‘famiglie’ di gruppi di opposizione. Da una parte ci sono partiti prevalentemente di sinistra, ovvero la sinistra europea di Gue/Ngl e i Verdi. Dall’altra si collocano i partiti euro-scettici e prevalentemente di destra, ovvero Ecr (euroscettici moderati, fino alla Brexit includono anche i conservatori britannici), la destra profonda di Enf (che comprende il Raggruppamento nazionale di Marine Le Pen e la Lega) e un gruppo più eterogeneo di euro-scettici forti, Efdd (in cui i 14 deputati del Movimento 5 Stelle dominano su altri piccoli partiti).
Malgrado l’attesa perdita di consensi da parte dei partiti moderati tradizionali, nessuno dei due blocchi alternativi sembrerebbe capace di crescere a sufficienza. Le sinistre lottano per conservare il 14% dei seggi guadagnato nel 2014. Le destre, che hanno fatto il loro exploit nel 2009 – quando avevano quasi raddoppiato la loro forza relativa, passando dal 12% al 21% dei seggi – sembrano oggi destinate a migliorare solo marginalmente il risultato ottenuto cinque anni fa (al 24%). Mentre le destre di Enf potrebbero quasi raddoppiare i loro seggi, passando dal 5% del 2014 al 9% di quest’anno, i conservatori euro-cettici perderanno i Tories britannici per via della Brexit, rischiando così di scendere dal 9% al 7% dei seggi.
Un Parlamento diviso
Una cosa comunque sembra piuttosto certa: il prossimo Parlamento europeo raggiungerà livelli di frammentazione partitica tra i più alti mai registrati in Europa occidentale dalla fine della Seconda guerra mondiale. Per misurare la frammentazione partitica si può utilizzare un indice chiamato ‘numero effettivo di partiti’: più è alto, più il Parlamento ospita molti partiti di dimensioni medio-grandi, il che complica la formazione di maggioranze politiche stabili. Per il Parlamento europeo, l’indice, che nel 2004 si attestava intorno ai 4 ‘partiti effettivi’, dopo maggio potrebbe schizzare a 7,5. Per confronto, il Parlamento olandese, attualmente il più frammentato in Europa, ha un numero effettivo di partiti vicino a 8.
A complicare ulteriormente le cose, alcuni partiti nazionali non appartengono al gruppo politico europeo che ci si potrebbe attendere. È il caso per esempio del partito Fidesz del premier ungherese Viktòr Orbán, notoriamente poco vicino a posizioni moderate e tuttavia ospitato dal centrista Ppe in un rapporto di mutua convenienza.
In questo caso vale il discorso inverso rispetto al partito di Macron: Fidesz potrebbe raccogliere 14 seggi, equivalenti al 2% del totale, e in uno scenario di perdita di consensi della maggioranza tradizionale il suo ruolo potrebbe diventare ancora più importante. Un secondo elemento, altrettanto cruciale, è che dopo l’esito del voto alcuni partiti tendono a spostarsi da un gruppo all’altro, o a fondarne di nuovi.
Riassumendo e guardando al futuro: la grande coalizione centrista dovrebbe perdere consensi ma sopravvivere. Le opposizioni saranno divise e ‘in flusso’. Tutto cambia perché nulla cambi? Probabilmente no: l’elevata frammentazione renderà sempre più difficile prendere decisioni condivise. E alle opposizioni anti-europee potrebbe bastare lo stallo del Parlamento europeo, anche se provocato da loro, per dimostrare come l’Europa dei burocrati sia sempre più incapace di riformarsi per il bene dei cittadini. È dunque prevedibile che lo scaricabarile delle colpe nazionali verso Bruxelles prosegua, ma con una frequenza e una intensità persino superiori a quelle odierne.
In questo perenne tiro alla fune, tuttavia, anche i partiti euro-scettici hanno interesse che la corda non si spezzi. Senza l’Unione europea, perderebbero il capro espiatorio perfetto. Ma più crescono le tensioni, più è possibile che qualcuno tiri troppo e che il giocattolo si rompa. Mentre in Europa tutti continuano a guardare ai Governi nazionali, e dunque al Consiglio europeo, chissà che dopo maggio non sia proprio l’emiciclo più ignorato dai media a diventare il luogo in cui prenderà realmente corpo lo scontro che potrebbe decidere le sorti dell’Unione europea del futuro.
Questo articolo è stato realizzato nell’ambito dell’Osservatorio IAI-ISPI sulla politica estera italiana.