IAI
Balcani e integrazione euro-atlantica

Macedonia del Nord: primi passi verso l’adesione alla Nato

10 Feb 2019 - Valbona Zeneli - Valbona Zeneli

La Nato ha mantenuto la promessa di tenere la sua porta aperta. Da mercoledì 6 febbraio, la Macedonia del Nord è stata formalmente invitata a diventare il trentesimo Stato membro dell’alleanza. Una storica decisione che ha un significato enorme per Skopje e il suo futuro percorso euro-atlantico (avviato dopo l’accordo con la Grecia che ha risolto la disputa sul nome) e per il futuro della regione dei Balcani occidentali; ma anche per la stessa Nato e più in generale per le relazioni transatlantiche.

Il Protocollo di adesione firmato dai 29 Stati membri della Nato è stato inviato ai Parlamenti nazionali per la ratifica: un processo che dovrebbe concludersi entro la fine del 2019. Atene è stata la prima a procedere alla ratifica: un forte segnale della volontà politica di migliorare rapporti di vicinato spesso tesi; un segnale che potrebbe essere positivamente ribaltare il futuro di una regione travagliata come Balcani occidentali.

La fine di una disputa quasi trentennale
L’approvazione da parte del Parlamento greco è stato individuata dai leader macedoni come il momento di entrata in vigore del nuovo nome di Repubblica della Macedonia del Nord, come concordato nell’Accordo di Prespa ratificato dai due Paesi a inizio anno, ponendo fine a una disputa quasi trentennale tra Skopje e Atene. A tener viva questa disputa sono state questioni comuni alla recente storia europea, alle spinte nazionaliste e alle difficili relazioni di vicinato.

Sin dalla dichiarazione di indipendenza della Macedonia dalla Jugoslavia, nel 1991, i greci si sono sempre opposti ferocemente all’uso del nome da parte dei loro vicini settentrionali, preoccupati che il neonato Paese si sarebbe appropriato della storia ellenica risalendo ad Alessandro Magno e rivendicando le relazioni con l’antica civiltà greca della Macedonia. In fin dei conti, cioè, implicando ambizioni territoriali sulla omonima regione settentrionale della Grecia con capoluogo Salonicco.

La Macedonia si è così vista riconosciuta a livello internazionale sotto il nome provvisorio di “ex Repubblica jugoslava di Macedonia” (Fyrom, nell’acronimo inglese), con cui aderì anche alle Nazioni Unite nel 1993. In Costituzione, invece, continuava a leggersi la denominazione di “Repubblica della Macedonia”.

I grandi progetti infrastrutturali che, sotto il governo conservatore di Nikola Gruevski, hanno rifatto il look alla capitale macedone, ornandola con statue elleniche, hanno aggiunto carburante al fuoco del nazionalismo, sempre molto pericoloso nella regione balcanica.

La disputa sul nome si è nella pratica tradotta nel potere di veto della Grecia che ha sino ad oggi bloccato l’integrazione euro-atlantica della Macedonia. Nonostante le conseguenze negative per la stabilità e lo sviluppo economico della Macedonia, la disputa, d’altra parte, è stata d’altra parte usata dalla classe politica spesso corrotta del Paese come un capro espiatorio per la mancanza di riforme e il debole sviluppo economico.

Da Prespa la risposta ai nazionalismi
Gli ultimi mesi, dopo la firma dell’Accordo sul nome sulle sponde del lago di Prespa, non sono stati facili per i governi di Atene e Skopje. Prima il referendum con cui Skopje ha cercato il consenso popolare sulla riforma costituzionale del nome – affossato dalla bassa affluenza -, poi il risicato passaggio parlamentare ad Atene, con cui il premier Alexis Tsipras ha dato via libera alla ratifica dell’accordo, perdendo un alleato di governo. Ma, nel frattempo, una nuova pagina veniva scritta per i Balcani. “L’odio del nazionalismo, le dispute e il conflitto saranno sostituite dall’amicizia, la pace e la cooperazione”, ha assicurato Tsipras in quell’occasione.

In un’era in cui la politica europea viene rimodellata dal risorgere del nazionalismo e dalla febbre del malcontento pubblico – alimentata dalla crisi finanziaria e dalle grandi ondate migratorie -, forse i politici europei possono prendere qualche lezione dai visionari colleghi dei Balcani. La ribellione radicale cui assistiamo richiede ai vertici della politica di capire meglio i bisogni dei concittadini e di esercitare una leadership visionaria senza cadere preda delle paure degli elettori, diventando semplicemente seguaci dell’opinione pubblica. Adesso, Tsipras e il premier macedone Zoran Zaev sono candidati al premio Nobel per la pace, seguendo l’esempio dell’Unione europea nel 2012.

L’Accordo di Prespa dovrebbe essere considerato come un importante precedente per la risoluzione delle controversie nei Balcani, a partire da quelle più urgenti, anzitutto quella tra Serbia e Kosovo.

La posta in palio per l’Occidente 
La futura appartenenza della Macedonia del Nord all’Alleanza Atlantica, molto attesa sin dal 1999, pone il Paese balcanico sotto un ombrello di stabilità e sicurezza, in una regione che presenta ancora tante sacche di incertezza. È anche un segnale forte che testimonia come il modello seducente dell’Occidente sia ancora forte e resiliente nei Balcani, in grado di competere con i suoi valori democratici e con la prosperità offerti dalla comunità transatlantica.

La Russia, sebbene manchi di una strategia coerente nei confronti della regione dell’Europa sud-orientale, ha aumentato la sua presenza nei Balcani, come parte di un più ampio gioco geopolitico e di scontro con l’Occidente. L’adesione della Macedonia del Nord alla Nato può quindi essere considerata una battuta d’arresto per Mosca, nonostante la sua ripetuta interferenza nel processo di risoluzione della disputa sul nome, nella speranza di evitare l’avvicinamento di Skopje all’asse transatlantico, come aveva provato già a fare con il Montenegro nel 2017, ventinovesimo Stato a entrare a far parte dell’Alleanza, il primo fra i sei Paesi dei Balcani occidentali che guardano all’integrazione euro-atlantica. Un nuovo Stato balcanico nella Nato è fondamentale per stabilizzare la regione, rafforzare la presenza dell’Occidente nei Balcani e affrontare le influenze esterne.

Sullo sfondo di un’enorme incertezza, le leadership degli Stati Uniti e dell’Unione europea (principalmente della Germania) hanno dimostrato che nei Balcani si può registrare un cambiamento positivo, e l’impegno diretto e sostenibile paga, portando una maggiore stabilità e facendo fare passi avanti all’integrazione regionale.

Adesso tocca all’Ue
La fine della disputa sul nome tra Skopje e Atene è una vittoria per la Nato ma anche per l’Ue. L’adesione all’Alleanza Atlantica dovrebbe essere infatti seguita da quella all’Unione europea. Come la recente storia dell’Europa orientale post-Guerra Fredda ci insegna, l’appartenenza all’Alleanza politico-militare della Nato è stata spesso seguita dall’integrazione nelle strutture dell’Ue.

Il Consiglio europeo del giugno prossimo, che ha all’ordine del giorno anche l’allargamento ai Balcani occidentali (con l’avvio dei negoziati con Macedonia del Nord e Albania), non dovrebbe ripetere l’errore degli ultimi anni, costellati di opportunità mancate per elevare la questione dal livello tecnico a quello politico, anche se le imminenti elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo potrebbero cambiare l’attuale ottimismo per il futuro dei Balcani nell’Ue. Inutile dire che l’onere maggiore di intraprendere serie riforme politiche ed economiche dipende dai leader dei governi della regione balcanica. Sono loro a dover agire presto per avere una realistica possibilità di successo.

Foto di copertina © Flickr NATO