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Ultimi trend occupazionali in Italia ed Europa

Migranti: dall’integrazione economica a quella sociale

4 Feb 2019 - Emmanuela Banfo - Emmanuela Banfo

Immigrati sempre più poveri, soprattutto in Italia e Spagna, dove hanno rispettivamente 7,7% e 13,4% di probabilità in più di trovarsi nel 10% della popolazione con il reddito più basso. È questo uno dei dati del terzo Rapporto annuale dell’Osservatorio sulle migrazioni che dice anche come gli immigrati in Europa abbiano in media un tasso di occupazione inferiore a quello dei nativi di oltre l’ 8%, con un peggioramento rispetto al 2016.

Le migrazioni come strumento di ascesa sociale
Sullo sfondo del report l’effetto Brexit: Tommaso Frattini, professore dell’ Università di Milano e del Centro studi d’ Agliano, precisa che è prematuro misurare le ricadute della Brexit; tuttavia, già si registra un calo delle emigrazioni dal resto d’Europa. Da evidenziare anche le conseguenze di politiche d’ingresso restrittive, che oltre ad avere contraccolpi sui diretti interessati provocano un’alterazione di quella fotografia della realtà sociale che invece dovrebbe essere d’aiuto a strategie di equilibrio e normalizzazione.

Il quasi azzeramento dei permessi di soggiorno per motivi di lavoro e la crescita di quelli di ricongiungimento familiare e di asilo per motivi umanitari nasconde un sommerso fatto di marginalità e sfruttamento da un lato e di aspirazioni culturali e sociali frustrate. Ran Abramitzky, professore di economia alla Stanford University, tra i relatori in occasione della presentazione a Torino del Rapporto sulle Migrazioni (assieme a Marco Tabellini dell’Harvard Business School e Lucinda Platt dell’LSE), ricorda che da sempre le migrazioni sono uno strumento anti-povertà, un modo per migliorare la propria condizione di vita.

Tutti coltivano questo sogno, compresi coloro che sono in fuga da guerre o persecuzioni. Una ricerca recente del Museo del Risparmio e di Intesa Sanpaolo afferma, invece, che il 20% di un campione rappresentativo di immigrati da 3 a 10 anni in Italia, dichiara di avere lasciato nel Paese d’origine un tenore di vita più alto. La marginalità economica e quella sociale si sta accentuando e si sbaglia chi pensa che il problema riguardi gli immigrati immortalati nelle immagini di navi e barconi nel Mediterraneo.

Dai report annuali di Università di Milano, Collegio Carlo Alberto e Centro studi Luca D’Agliano, risulta un trend costante: nell’Unione Europea un residente su 10 è immigrato, la maggior parte di questi è residente in uno dei Paesi dell’ area Ue15 da più di 5 anni, i nuovi arrivati aumentano di due milioni all’anno e per metà sono di origine europea. Non ci sono mutamenti significativi. I cittadini dell’Ue rappresentano il 38% della popolazione immigrata; il 16% è nato in un Paese europeo al di fuori dell’ Ue; il 19% arriva dall’Africa e dal Medio Oriente; il 16% dall’ Asia; l’ 11% da America e Oceania.

Accoglienza dei migranti e giustizia sociale
I trend che invece danno segnali negativi riguardano le condizioni di vita. Gli immigrati hanno un tasso di occupazione più basso dei nativi e in questo panorama spiccano Regno Unito, Italia e Irlanda, dove si registra un differenziale minore tra immigrati e nativi. Ma, diversamente dalle precedenti analisi statistiche, tali differenze nel tasso di occupazione non si spiegano in termini di età, genere e istruzione. Ovvero: i profili di età-generazione-istruzione degli immigrati sono simili ai nativi in termini di probabilità di trovare lavoro.

E se i differenziali tendono a ridursi con l’aumentare degli anni di residenza, l’Italia, ancora nelle tenaglie della crisi, è l’ unica realtà dove la probabilità di impiego dei migranti raggiunge quella dei nativi dopo sei anni di residenza e la supera dopo sette. Si assiste, contemporaneamente, a una polarizzazione che spinge verso il basso un intero strato della popolazione, immigrata e non, e verso l’alto lo strato che ha accesso all’istruzione universitaria e di alto livello di qualificazione. Il primo strato è in espansione, il secondo in riduzione.

Basta soffermarsi su questi pochi elementi per capire come il futuro si stia giocando non tanto sull’accoglienza dei migranti, ma sulla giustizia sociale. Non tanto sulla convivenza di etnie diverse, ma sulla coesione di un tessuto sociale lacerato tra chi ha troppo e chi ha troppo poco, con il welfare-catalizzatore in affanno. La trasversalità delle problematiche è intra-etnica e post-etnica: ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri, la cosiddetta classe media praticamente azzerata.

Il rischio ghettizzazione
Non è una novità; ma sarebbe riduttivo – avvertono alcuni studi – se ci si limitasse a leggere il fenomeno in divenire in una chiave puramente economica: risolviamo la povertà, permettiamo a tutti di essere consumatori di prodotti e servizi e le nostre società saranno pacificate. Gli studi di Marco Tabellini sulla Grande Migrazione nei primi decenni del Novecento negli Usa evidenziano che l’immigrazione aumentò l’occupazione e migliorò la posizione professionale degli indigeni, ma là dove le diversità etniche erano economicamente vantaggiose c’era anche un’ostilità politica che rendeva difficile gestire quelle diversità.

I gruppi etnicamente omogenei e dominanti tendono comunque ad escludere e segregare le minoranze, che a loro volta si organizzano secondo l’appartenenza etnica. La ricerca di Lucinda Platt sul sistema scolastico nel Regno Unito ha mostrato che la coesione sociale inizia tra gli studenti. Scuole monoetniche produrranno una mentalità da apartheid. Il volersi ‘distinguere’, quindi, è una realtà umana: distinguersi per censo, per professione, per nazione, per religione o colore della pelle. L’elenco è aperto.

Ed è proprio quest che bisogna da correggere: il collante di una società non deve dipendere da queste appartenenze. Società atomistiche pensano all’integrazione come alla convivenza di gruppi tra loro indifferenti; la società relazionale li mette in comunicazione focalizzandosi su interessi comuni. Quali?  Individuarli è urgente, altrimenti il rischio è che le ‘diseguaglianze multiple’ – espressione proposta dal sociologo ed economista Arnaldo Bagnasco – si strutturino. Interessi comuni di vita dignitosa, ma anche di partecipazione politica.

Il Rapporto sulle migrazioni conferma, invece, che in Italia e in Spagna la naturalizzazione è più lenta rispetto al resto d’Europa, con rispettivamente il 10% e il 16% degli immigrati naturalizzati dopo 10 anni di residenza contro il 74% della Svezia. Presenze attive, ma di non-cittadini.