Brexit: Irlanda, pace a rischio sul confine della discordia
Lungo il confine che separa il Regno Unito dalla Repubblica d’Irlanda, l’Ulster dall’Eire, i resti dei vecchi checkpoint da Derry a Warrenpoint si offrono minacciosi alla vista di chi quotidianamente varca quella frontiera e, in tempi di Brexit, sembrano incutere ancora più timore. Poco più di vent’anni fa, nel 1998, veniva firmato a Belfast l’Accordo del Venerdì Santo, che poneva la prima pietra per la pace in Irlanda del Nord dopo trent’anni di guerra fratricida.
La paura di una ripresa delle ostilità tra nazionalisti cattolici e unionisti protestanti è stata rinnovata, lo scorso 19 gennaio, dallo scoppio di un’autobomba nel capoluogo omonimo della contea di Derry, che ha fatto alzare il livello di allerta in molte altre aree dell’Isola. Il gesto, avvenuto nella città simbolo dei Troubles, è stato attribuito al gruppo dissidente della nuova Ira, già responsabile in passato di attacchi simili ai posti di blocco lungo il confine.ù
L’azione ricalca, infatti, le modalità utilizzate negli scontri dei sanguinosi Anni Settanta, ma rileva anche qualcosa in più: segna il culmine di massima tensione raggiunto dopo due anni di trattative con Bruxelles per l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue, deludenti oltreché sorde alle richieste dei nord-irlandesi. L’incertezza cui va incontro l’Ulster fa pertanto temere che in questa regione del Regno Unito si possa instaurare di nuovo un clima di guerriglia.
Nessuna soluzione per la frontiera irlandese
Questa linea di circa 500 km, che separa i due Stati e che tanto aveva fatto parlare di sé, è tornata al centro della scena con l’abbattersi dell’uragano Brexit, costituendo di fatto l’unico contatto fisico tra Unione europea e Regno Unito.
A poco più di 40 giorni dal 29 marzo, data dell’uscita effettiva della Gran Bretagna dall’Unione europea, non è stata ancora trovata la quadra sul confine irlandese. Ad oggi, una hard Brexit senza un hard border sembra essere impossibile, ma nel contempo il mantenimento di un confine troppo soft porterebbe a un divorzio così debole da considerarsi inaccettabile per i ‘brexiteers’ più intransigenti. Una matassa difficile da sbrogliare dunque; e a pagarne le spese non possono che essere i cittadini, soprattutto irlandesi.
Questa fine mese sarà perciò cruciale per la premier britannica Theresa May, che cerca di ottenere da Bruxelles delle modifiche al meccanismo escogitato per la frontiera irlandese, il famigerato ‘backstop’, prima di sottoporre nuovamente l’accordo al voto dei Comuni, dopo la bocciatura di gennaio. Ma non è chiaro quale soluzione scaturirà dai contatti con i leader dei 27: dal Consiglio e dalla Commissione europei non giungono certo parole di conforto.
Di rinegoziare l’intesa non se ne parla. E il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk alza i toni, auspicando un posto all’inferno speciale per chi ha promosso la Brexit senza avere prima elaborato un piano di fuga.
Il backstop, che cosa prevede
La soluzione avanzata ormai un anno fa per il confine tra Eire e Ulster da Michel Barnier, il negoziatore europeo per l’uscita dall’Ue del Regno Unito – il backstop – è stata rispedita al mittente senza se e senza ma. Si trattava di una clausola di salvaguardia da inserire nella bozza d’intesa con Londra volta a garantire il mantenimento di un confine fluido tra il Nord e il Sud dell’isola. Una sorta di area comune irlandese che possa fungere da paracadute qualora non si riuscisse a raggiungere un nuovo accordo commerciale entro lo scadere del periodo di transizione per tutelare imprese e cittadini.
L’idea non è però gradita dalla May e tanto meno dai suoi alleati del Partito Democratico Unionista nord-irlandese, non disposti ad accettare alcuna disparità di trattamento commerciale con le altre ‘nazioni’ britanniche, che provocherebbe un isolamento ancor più netto.
Dalla prima proposta si è giunti a novembre a stilare una seconda versione della clausola. La nuova soluzione, approvata sia dai ministri britannici che dal Consiglio europeo, ha sollevato nelle stanze di Westminster, viste le sostanziali novità introdotte, critiche ancor più violente della precedente.
Nell’intesa, poi bocciata dal Parlamento britannico il 15 gennaio, era infatti previsto che in questa sorta di unione doganale provvisoria restasse non solo l’Ulster, bensì tutto il Regno Unito, fino al concretizzarsi di un nuovo Free Trade Agreement. Un escamotage funzionale ad aggirare il backstop, aveva dichiarato la premier. Ma non essendoci alcuna garanzia che un tale accordo commerciale possa essere negoziato entro la fine del 2020, i Comuni hanno preferito riportare le pedine del gioco alla casella di partenza.
Gli unici apertamente favorevoli a questa “rete di protezione” sono stati gli irlandesi del premier, o Taoiseach, Leo Varadkar, soddisfatti per il modo in cui sono stati salvaguardati i loro interessi e per la linea ‘Ireland First’ mantenuta da Bruxelles.
Un futuro incerto
La May è tornata dunque a rassicurare i nord-irlandesi nel suo ultimo discorso tenuto a Belfast il 5 febbraio, promettendo un rafforzamento della devolution nel Paese – a detta di molti solo per calmare le acque nell’Ulster – e la difesa dell’Accordo del Venerdì Santo. La sua strategia sembra comunque essere sempre la stessa: costringere i Comuni a votare il suo accordo, l’unico sul tavolo, anziché imboccare il terreno inesplorato del “no deal”.
Tuttavia gli scenari che si prospettano per le prossime settimane non tranquillizzano affatto sulla possibilità di evitare l’uscita sregolata e il solo ricordo dell’hard border, inevitabile in una condizione simile, provoca nei nord-irlandesi rabbia e memorie dolorose.
Per gli abitanti delle regioni di frontiera, le cui vite negli ultimi due decenni si sono snodate in termini di sanità, istruzione, lavoro e pensioni senza frizione al di qua e al di là del confine, il “no deal” costituisce il peggiore degli incubi.
Se dal punto di vista commerciale il timore è che si possa assistere alla ripresa di forme di criminalità organizzata e di contrabbando viste le differenze normative che si verrebbero a creare con l’uscita dell’Ulster dal mercato comune europeo, è principalmente a livello sociale che si registrano le preoccupazioni maggiori. Il rischio della fuga dalle zone di frontiera, con una conseguente centralizzazione nelle capitali Belfast e Dublino, e di una rinnovata polarizzazione sociale sarebbero infatti dietro l’angolo.