Yemen: tra guerra e tregua, lo scontro sciiti-sunniti
Quando, nel 2012, in Yemen divamparono le proteste sulla spinta delle Primavere arabe e il presidente Saleh fu costretto a lasciare dopo trent’anni il potere, tutti pensarono di trovarsi di fronte ad una guerra civile tra i ribelli huthi di fede sciita – minoranza nel Paese – e i sunniti filo-governativi.
A partire dal 2015, però, il conflitto in Yemen ha acquisito una dimensione regionale, con l’intervento di una coalizione militare multinazionale composta da Arabia Saudita, Egitto e alcuni Paesi del Golfo, a supporto delle forze governative contro i ribelli ufficialmente denominati “Ansar Allah”.
I ribelli controllano la capitale San’a e buona parte dello Yemen settentrionale mentre il presidente Hadi ed il suo governo sono stabiliti ad Aden. Quella che è considerata una guerra dimenticata dalla comunità internazionale, vede, da settimane, i ribelli difendersi dall’offensiva della coalizione guidata dai sauditi sulla città portuale di Hodeida.
Dalla presa di Hodeida alla tregua di Stoccolma
Hodeida, località sul Mar Rosso nella parte orientale dello Yemen, ospita un porto fondamentale, da cui arrivano le navi cariche di merci e aiuti umanitari. Nell’inferno di Hodeida ,dal giugno scorso sono intrappolati migliaia di civili in uno scontro, diventato vera e propria emergenza umanitaria, in cima agli sforzi diplomatici delle Nazioni Unite e della comunità internazionale.
Sforzi che hanno ottenuto un’ insperato successo a Stoccolma, con l’accordo per il cessate il fuoco su Hodeida raggiunto tra ribelli e governativi durante i primi colloqui di pace promossi dall’inviato speciale Onu Martin Griffiths.
In realtà, a fronteggiarsi in Yemen, sulla pelle dei civili, sono i duellanti del mondo arabo: Iran e Arabia Saudita, in un pericoloso gioco di potere regionale che pone di fronte il mondo sunnita a quello sciita, con tutte le temibili conseguenze per la regione.
I record negativi del Paese
Ubicato in una posizione geografica strategica per la regione, lo Yemen è tuttavia lo Stato più povero del Medio Oriente.
La Repubblica yemenita è affacciata ad est sul Mar Rosso e nella parte meridionale sul Golfo di Aden, quello specchio di mare da cui passano tutte le petroliere dirette nel Golfo Persico.
Il campo di battaglia Yemen conta, ad oltre 3 anni dall’inizio dei bombardamenti sauditi e dagli scontri tra ribelli huthi e forze governative, migliaia di morti e una crisi umanitaria che coinvolge soprattutto i bambini. 22 milioni di persone necessitano di aiuti umanitari, tra cui 120 mila bambini che rischiano di morire per fame, come denunciato da Save The Children.
Lo Yemen oltre ad affrontare la crisi alimentare e la guerra, vive nella condizione paradossale di essere anche un approdo di migranti in arrivo via mare dal Corno d’Africa nel tentativo di raggiungere i Paesi del Golfo. 150 mila, secondo l’Organizzazione mondiale per le migrazioni: numeri che rendono lo Yemen uno dei Paesi con più rifugiati interni ed esterni.
Alle origini del conflitto
A tre anni dall’intervento della coalizione multinazionale a sostegno del governo, appare chiaro quali sono i veri attori in campo. Da una parte il mondo sciita, capeggiato dalla Repubblica Islamica di Iran che finanzia e appoggia – seppur non ufficialmente – i ribelli huthi; dall’altra i sauditi, egemoni, da sempre, nell’universo sunnita. Nel mezzo, le strategie di potere e una rivalità tra le due correnti della religione islamica che c’entra sempre meno con la teologia e la dottrina e riguarda solo potere e spazi di influenza.
A spingere la monarchia saudita ad entrare in scena per sostenere il presidente Hadi non è stata solo l’avanzata degli huthi sciiti, giunti a controllare metà del Paese. Ad intimorire Riad è stata piuttosto la risonanza che la vicenda yemenita avrebbe potuto avere sugli sciiti sparsi nella regione; sciiti che considerano Teheran unico protettore per chi è da sempre minoranza nel mondo islamico. Una spaccatura, quella tra sciiti e sunniti, capace di destabilizzare il Medio Oriente e che vede l’Iran e l’Arabia Saudita come riferimenti primari rispettivamente per lo sciismo e il sunnismo.
Nella Repubblica Islamica lo sciismo è religione di stato. La massima carica istituzionale è la Guida Suprema, da quasi 30 anni l’Ayatollah Ali Khamenei. La patria del sunnismo, il Regno Saudita, ospita nei suoi confini i luoghi sacri dell’Islam: la Mecca e Medina, luogo di nascita e morte del Profeta Maometto.
Nell’astio tra Teheran e Riad c’è la convivenza tra sunniti e sciiti nei Paesi della regione, con i sunniti che rappresentano l’85% dei musulmani. Una differenza che affonda le sue radici nel 632 d.C., anno di morte del Profeta.
Quelli che si chiameranno sunniti scelgono come successore di Maometto la “Sunna”, ovvero la tradizione, i compagni e discepoli del Profeta. I futuri sciiti invece, affermano che solo un consanguineo di Maometto può guidare l’Islam, e per questo designano Ali, cugino e genero del Profeta. A Karbala, in Iraq, nel 680 d.C., il figlio di Ali, Hussain, è ucciso dai sunniti. È da allora che i percorsi tra le due anime dell’Islam si separano per sempre, con i sunniti che diventano maggioranza ed accentrano nelle loro mani potere politico e religioso.
Nell’attesa del ritorno del 12esimo Iman, discendente diretto di Ali, gli sciiti decidono di farsi guidare dagli Ayatollah, guide spirituali formate nelle più importanti università coraniche. I sunniti al contrario, non si affidano a guide spirituali. Solo i compagni del Profeta, coloro che hanno condiviso il suo percorso di vita e ascoltato i suoi insegnamenti possono tramandarne il vero messaggio.
Nel mezzo di una rivalità che affonda le sue radici nel 632 d.C. ci sono gli intrecci regionali che vedono Teheran difensore e faro per tutte le minoranze sciite oppresse nella regione, compreso lo Yemen; ma anche il commercio di oro nero e armi che coinvolge gli Stati Uniti, alleati di ferro dell’Arabia Saudita e nemici giurati – neanche a dirlo, della Repubblica Islamica.
Foto di copertina © Mohammed Mohammed/Xinhua via ZUMA Wire