Vaticano: la “geopolitica dello spirito” di Francesco
Se leggessimo il discorso di papa Francesco al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede con gli occhi del reis efendi Ahmed Atif, potremmo capire molto sulla “geopolitica dello spirito” del pontefice. Ahmed Atif, alto funzionario dell’Impero ottomano – una specie di ministro degli Esteri – divideva la politica di tutti gli Stati, compreso il suo, in “politica permanente” e “politica temporanea”. La prima è, banalmente, l’interesse nazionale, ovvero il punto di riferimento per qualsiasi azione politica; la seconda, invece, serve a adeguare le proprie ambizioni al momento storico e ai mezzi a disposizione.
Parlando, tra le altre, di Corea, Venezuela – da pochi giorni si è insediato per un secondo mandato il presidente Nicolás Maduro – e di Nicaragua, papa Francesco ha descritto il tetrastilo sul quale si poggia la politica permanente del suo pontificato. Innanzitutto, la missione universale che la Chiesa ha in quanto – parole di Paolo VI, citato lungamente dal pontefice argentino – “esperta di umanità”. Quindi, il multilateralismo come metodo unico per la soluzione delle problematiche internazionali. Infine, il perseguimento della pace non come mero corollario di un equilibrio di potenza tra gli Stati ma come risultato di una “etica di solidarietà”.
La domanda è: qual è la politica temporanea della Santa Sede? Ovvero: come papa Francesco e la diplomazia vaticana agiscono nello specifico per il raggiungimento di questo quadruplice obiettivo? Nel suo discorso, il successore di Pietro ha affrontato le singole sfide del pianeta, ma anche le opportunità che la Santa Sede, con tutti gli altri attori internazionali, dovrà saper cogliere per portare avanti la propria politica permanente.
La missione vaticana nelle periferie del mondo
Il Vaticano – che tra un mese compirà 90 anni – è il più minuscolo impero della storia. Territorialmente paragonabile al Comune più piccolo in Italia, il Vaticano gode di un’immensa rilevanza geopolitica in quanto comunità che si estende ben al di là dei suoi ristretti confini politici. Ovvero: un impero, che può far conto su quasi un miliardo e trecento milioni di credenti in tutto il mondo.
Ma non è solo a questi che si limita il raggio d’azione petrino. Come disse Paolo VI nel 1965 di fronte all’Assemblea generale dell’Onu, la Chiesa è “esperta di umanità”, ovvero è voce dell’intera popolazione mondiale. Per quest’ultima, il Papa ambisce ad essere “ascoltatore attento e sensibile” di quelli che lui stesso definisce “deboli”. Dai poveri ai giovani, dalle donne a chi è senza lavoro. Nelle periferie non solo geografiche, ma sociali: questa è la missione della “Chiesa in uscita” voluta (e sperata) nella Evangelii Gaudium.
Il multilateralismo per una politica “infra-mondiale”
Tra i più deboli, Francesco indica anche i migranti. Per il Papa, il termine ricomprende tutti coloro i quali hanno dovuto lasciare il proprio Paese a causa del “flagello della povertà”, oppure vittime “di ogni genere di violenza e di persecuzione”. E ancora, i cosiddetti “migranti climatici”, costretti ad emigrare a seguito di “catastrofi naturali” e di “sconvolgimenti climatici”.
Per papa Francesco, la questione migratoria richiede un approccio multilaterale, l’unico in grado di poter dare soluzioni di lungo periodo. “Alla politica è richiesto di essere lungimirante”, spiega il pontefice, e di non limitarsi al raggiungimento di “soluzioni di corto respiro”. Soluzioni, queste, che sono il frutto di politiche nazionali (e nazionaliste) sempre più mirate alla ricerca di “consenso immediato e settario”.
Ecco perché proprio il multilateralismo, nella prospettiva geopolitica vaticana, assume importanza fondamentale. Esso è in grado di avviare processi di dialogo e confronto fra gli Stati, obbligati così a ricercare un compromesso e a non ripiegarsi su sé stessi e sulle proprie posizioni. Chiusure che papa Francesco, nel contesto di un mondo globalizzato, ritiene dannose e controproducenti. In questo senso, è Pasquale Ferrara, ambasciatore italiano ad Algeri, ad inquadrare al meglio la concezione che la Santa Sede ha dei fenomeni internazionali. Ci si muove, oggi, in una dimensione “infra-mondiale”, ovvero in un ordine mondiale dove le regioni del pianeta sono in una costante e profonda connessione. Dunque, nessuna iniziativa bilaterale – né, tantomeno, unilaterale – può creare un processo virtuoso a livello transnazionale.
In questo senso, la politica internazionale vaticana accoglie con entusiasmo – al di là di qualche critica – sia l’adozione del Global Compact per una migrazione sicura, ordinata e regolare, sia il Rulebook sottoscritto dagli Stati membri a conclusione della Cop24 di Katowice per la riduzione delle emissioni inquinanti. Non due traguardi, ma due punti di partenza per la diplomazia multilaterale che, nell’ottica papale, dovrà divenire meccanismo unico del decision-making a livello mondiale.
La pace e la casa di Jonathan Swift
Obiettivo ultimo delle organizzazioni multilaterali è la costruzione e il mantenimento della pace. Fu proprio papa Francesco, di ritorno dal suo primo viaggio in Corea del Sud nel 2014, a forgiare quell’espressione che divenne ben presto famosa: la “Terza guerra mondiale a pezzi”. Una guerra su scala mondiale, ma che si combatte qua e là, anche – forse, soprattutto – nelle forme non convenzionali.
Raggiungere la pace è, da sempre, politica permanente della Santa Sede. Ciò su cui insiste il pontefice, in particolare, è la necessità di edificare una pace sostenibile, positiva. Non la mera assenza di conflitto o l’equilibrio di potenza. Quest’ultimo, come scrisse Kant, è paragonabile alla casa di Jonathan Swift: costruita con i più alti concetti dell’architettura, crollò quando un passero vi si posò sopra. Per questo, il disarmo nucleare diviene politica attiva della Santa Sede: la deterrenza genera solo “un ingannevole senso di sicurezza” e non può costituire “la base della pacifica convivenza fra i membri della famiglia umana”. Questa, al contrario, è raggiungibile solo se vi è una comune “etica di solidarietà”.