Usa 2020: democratici, anti-Trump cercasi, troppi trovansi
Il Partito Democratico americano scalda i motori in vista delle primarie del 2020. Per i democratici, la situazione non si prospetta delle migliori. Nonostante abbia riconquistato nelle elezioni di midterm la Camera dei Rappresentanti, l’Asinello continua a essere dilaniato dalle faide intestine. L’ormai classico scontro tra i centristi e la sinistra non accenna a placarsi e – molto probabilmente – l’imminente campagna elettorale sarà destinata ad acuire queste divisioni. Soprattutto se si pensa ad alcune specifiche questioni programmatiche (come la riforma sanitaria).
La sinistra in subbuglio tra Warren e Sanders
In questo tumulto, le correnti della sinistra sono già in fibrillazione. Pochi giorni fa, la senatrice del Massachusetts Elizabeth Warren ha annunciato la creazione di un comitato esplorativo come primo passo per una sua prossima discesa in campo. Da sempre su posizioni energicamente progressiste (soprattutto in materia di finanza e big corporation), la Warren dovrà studiare un’adeguata strategia per riuscire ad avere effettive chances di vittoria.
Nonostante abbia un profilo molto preparato, si è sino ad oggi rivelata una sorta di eterna promessa della sinistra americana. Nel 2016 si susseguirono voci senza seguito su una sua candidatura alla nomination democratica. Il suo nome rispuntò poi come quello di papabile vice a fianco di Hillary Clinton. Ma anche in questo caso non se ne fece nulla.
Il punto è che – contrariamente a Bernie Sanders – la senatrice del Massachusetts deve ancora dimostrare di possedere le doti organizzative necessarie per condurre una campagna elettorale credibile ed efficace. Non soltanto in termini di raccolta fondi ma anche – e soprattutto – in termini di proposta politica. Elizabeth Warren dovrà, cioè, essere in grado di rivolgersi a quote elettorali trasversali, evitando di puntare soltanto sul proprio elettorato di riferimento.
D’altronde, la sinistra riscontra anche altri problemi. Nonostante le recenti accuse di molesti sessuali piovute su un componente del suo vecchio staff, anche Sanders parrebbe intenzionato a candidarsi nuovamente. Il problema a quel punto sarà capire se i due opteranno per un’alleanza o se – al contrario – sceglieranno di farsi la guerra. Eventualità, quest’ultima, che finirebbe prevedibilmente col frantumare il già poco stabile fronte della sinistra.
Le tante opzioni ‘liberal’ e il rischio della autoreferenzialità
Tra le correnti liberal dei democratici la situazione non è migliore. Per ora, i nomi in circolazione sono svariati: si va dalla senatrice californiana, Kamala Harris (pasionaria democratica distintasi per la sua durissima contestazione al giudice Brett Kavanaugh) al sindaco di New York Bill de Blasio, senza dimenticare l’ex deputato Beto O’ Rourke (recentemente sconfitto nella corsa elettorale per il seggio senatoriale del Texas dal repubblicano Ted Cruz).
Pur trattandosi di figure indubbiamente carismatiche, il problema è che rischiano di cadere nella trappola dell’autoreferenzialità. Per questo – forse ancor più di Elizabeth Warren – dovranno eventualmente dimostrare di essere in grado di attrarre voti realmente trasversali.
Un elemento stavolta ancora più dirimente che in passato: pare infatti che svariati Stati, in cui il Partito democratico teneva tradizionalmente caucus, opteranno nel 2020 per adottare il sistema delle primarie aperte. Un fattore che potrebbe rivelarsi decisivo: solitamente infatti i caucus (che sono assemblee ristrette degli iscritti al partito) tendono a favorire i candidati più settari, laddove il sistema delle primarie avvantaggia generalmente i candidati più trasversali.
Al centro, Biden e, per il momento, poco più
Dalle parti del centro dei democratici, si muove invece con circospezione l’ex vicepresidente, Joe Biden. Non è un mistero che nutra delle ambizioni presidenziali per il 2020: non ha mai smentito l’interesse a candidarsi, attacca ripetutamente Trump e ha recentemente anche incassato un mezzo endorsement dal governatore dello Stato di New York, Andrew Cuomo (un altro che, fino a poco tempo fa, sembrava accarezzare l’idea di candidarsi alla nomination democratica).
Va da sé che si tratta di un personaggio di esperienza, abituato a navigare tra gli ambienti dell’establishment di Washington. Senza poi trascurare che, in caso, potrebbe puntare tutto sul presentarsi come legittimo erede della presidenza Obama: una delle poche figure che, tranne in rari casi, gode ancora di alta popolarità tra gli elettori democratici.
Sennonché anche qui compaiono dei problemi. Al di là della questione anagrafica, non bisogna dimenticare che Biden venne già sconfitto alle primarie del 1988 e a quelle del 2008. Inoltre, la sua storica vicinanza alle alte sfere del Campidoglio – è stato senatore per oltre trent’anni – potrebbe rivelarsi un boomerang nel clima di crescente sentimento anti-establishment che caratterizza ormai l’agone politico americano.
l punto è che, oltra a Biden, il centro pare avere al momento ben poco in cui sperare. Ci sarebbe, a dire il vero, l’ex deputato del new Jersey John Delaney, che ha annunciato la sua candidatura già nell’estate 2017. Ma è onestamente difficile che arrivi da qualche parte.
Outsiders e first ladies
In tutto questo, potrebbero non mancare gli outsiders. Si fa sempre più insistente, per esempio, il nome del senatore dell’Ohio, Sherrod Brown. Accusato da più parti di essere un ‘populista’, è comunque forse l’unico politico fra i democratici ad aver compreso le cause del tracollo subìto dal Partito nel 2016. Uno dei pochi – per intenderci – che ha capito la necessità di tornare a parlare alla classe operaia impoverita della Rust Belt: una quota elettorale, un tempo democratica, che passò a sostenere Donald Trump due anni fa.
Una figura, quest’ultima, non poi così distante dallo stesso Brown, visto che – sul commercio internazionale – i due sembrano pensarla più o meno allo stesso modo. Insomma, il senatore potrebbe effettivamente avere le carte in regola per recuperare gran parte degli elettori democratici delusi. Il problema è che – almeno attualmente – sconta una scarsa notorietà a livello nazionale. E non è comunque detto che una figura in definitiva così ‘trumpista’ abbia reali speranze un domani contro l’attuale inquilino della Casa Bianca.
Infine, non è escludibile la discesa in campo di un’ex first lady. No, non stiamo parlando di Hillary Clinton (che pure qualcuno dice stia ipotizzando una candidatura). Ci riferiamo in realtà a Michelle Obama. Per quanto al momento non abbia dichiarato granché in proposito, ci sono alcuni elementi da sottolineare. Non solo il suo recente iperattivismo mediatico ma anche – e soprattutto – il fatto che suo marito, Barack, stia continuando ad impegnarsi politicamente: è rimasto a Washington ed ha fatto campagna elettorale in occasione delle ultime elezioni di metà mandato.
Insomma, non è del tutto escludibile che, visto il marasma in cui versa attualmente l’Asinello, Michelle possa improvvisamente candidarsi, presentandosi come una sorta di “papa straniero”, in grado di federare le varie correnti dei democratici. Una strategia che potrebbe rivelarsi efficace, nonostante alcuni ostacoli. Non dimentichiamo che, soprattutto negli ultimi anni, la figura di Michelle sia stata sempre più additata come esponente dell’establishment. Senza poi trascurare che il suo endorsement per Hillary Clinton nel 2016 possa aver lasciato strascichi negativi dalle parti della sinistra dem.
Insomma, per arrivare alla Casa Bianca la strada del Partito democratico è ancora lunga. E tortuosa.